Di Laura Salafia il Club ha scritto molto. E ha fatto crediamo abbastanza. L'abbiamo conosciuta nella struttura specializzata di Montecatone, nel 2011, dovlaurae fu ricoverata dopo un terribile incidente che le capitò nel luglio del 2010 a Catania. Uscita dall'università dopo aver ottenuto il massimo dei voti a un esame universitario, fu colpita da un proiettile vagante che non l'ha uccisa, ma l'ha lasciata tetraplegica. Laura, allora, aveva 34 anni,. Ora, 13 anni dopo, a questa sfortunata ragazza, che in questi ultimi anni ha perso anche il padre e la madre, verrà consegnata la laurea honoris causa. Nei giorni scorsi è arrivato l'ok dal Ministero dell'Istruzione e venerdì 9 giugno, alle ore 11, nell'aula magna del Dipartimento scienze umanistiche, monastero dei Benedettini, in piazza Dante 32 a Catania, ci sarà la cerimonia ufficiale. Il Club sarà presente e anche in quell'occasione abbraccerà forte Laura. 

La storia di laura Salafia è raccontata dal nostro presidente Massimo Pandolfi nel libro Innamorati della vita', uscito nel 2020 nel decennale dell'associazione.

Qui di seguito ecco il capitolo dedicato a Laura, la guerriera:

 

LAURA, LA GUERRIERA
Primo capitolo del libro Innamorati della vita

Alessandro Conti, il medico del reparto di rianimazione che
la intubò e si prodigò per salvarle la vita, incontrandola anni
dopo non si trattenne dal confidarle: «Sapendoti e vedendoti
in questo stato, tante volte mi sono chiesto se davvero
ho fatto bene». Lei, senza un attimo di esitazione, gli rispose
così: «Sì che ha fatto bene! Grazie, mille volte grazie, dottore.
Io voglio ardentemente vivere». Lei è Laura Salafia, è
nata il 5 giugno del 1976 a Siracusa e dal primo luglio del
2010 è tetraplegica, cioè paralizzata in tutti e quattro gli arti.
Un respiratore artificiale la aiuta a mantenere attive le
più elementari funzioni vitali e le consente di sopravvivere,
di parlare, di esserci.
Tutte le aspettative che Laura nutriva sul suo futuro si sono
infrante in un mezzogiorno d’estate a Catania, nel giardino
del monastero dei Benedettini, un gioiello del tardo barocco
sede del dipartimento dei corsi universitari umanistici.
All’epoca Laura era una studentessa lavoratrice con l’aspirazione
di dedicarsi all’insegnamento, dando seguito a una
precedente esperienza fatta a Padova, che seppur breve le
aveva fatto capire come quella fosse la sua strada. Per irrobustire
il curriculum era risoluta a sommare la laurea in lettere
moderne all’altra in lingue di cui era già in possesso.
Sembrava filasse tutto a meraviglia: quella mattina aveva appena
sostenuto l’esame di letteratura spagnola, collezionando
l’ennesimo trenta e lode. Ma a un tratto il destino si è
messo crudelmente di traverso.
Mentre si stava intrattenendo con alcuni compagni di studi,
scambiando le rituali impressioni post esame, Laura all’improvviso
si è accasciata. Una pallottola vagante le si era
conficcata nel collo, procurandole una gravissima lesione al
midollo. Malgrado tutto, non ha perso conoscenza. Anzi,
racconta: «Ricordo perfettamente quei terribili momenti: il
sangue in abbondanza, il respiro che veniva meno, la parola
che non usciva più. I miei compagni all’inizio pensarono fosse
un malore: poi è accorsa gente dall’altra parte della strada
gridando: “Guardate quell’uomo, ha ancora la pistola in mano,
ha sparato lui”».
Lui, l’uomo che brandiva la pistola, era tale Andrea Rizzotti,
dipendente comunale, il custode della grande chiesa
che affianca il monastero. Non era Laura il suo bersaglio.
I cinque colpi che esplose in rapida sequenza erano destinati
a un pregiudicato dal quale si sentiva minacciato, uno
che a suo dire gli ronzava attorno da tempo insultandolo e
irridendolo. Tre proiettili andarono a segno, ferendo il pregiudicato
che comunque sarebbe poi riuscito a cavarsela.
Uno dei due andati a vuoto disegnò la più improbabile e
assurda delle traiettorie, insinuandosi fra la seconda e la
terza vertebra cervicale di Laura.
Siamo di fronte a una vicenda che somiglia per molti
versi a quella di Marta Russo, la studentessa romana che il
9 maggio del 1997 fu raggiunta alla nuca da un proiettile
partito da una finestra, mentre a piedi percorreva uno dei
vialetti interni dell’università La Sapienza, e morì dopo cinque
giorni di agonia. Ha molti lati in comune anche con
quella di Manuel Bortuzzo, il nuotatore che ha perso l’uso
delle gambe dopo che nel febbraio del 2019 è finito nel mirino
di due balordi che gli spararono alla schiena, scambiandolo
per un tizio con il quale avevano avuto poco prima
una lite in un pub. Laura, Marta, Manuel: tutti e tre
vittime innocenti di una spietata e paradossale casualità
che ha fatto sì che si trovassero nel posto sbagliato al momento
sbagliato.
Da quel primo luglio del 2010 la vita di Laura ha subìto
una brusca e irreversibile virata e non è evidentemente più
la stessa. Ma la vita è vita, non è inquadrabile in schemi e
categorie anche quando assume forme e contenuti che non
corrispondono a quelli desiderati. Rispondendo a un ragazzo
che le chiedeva quali colori utilizzerebbe per rappresentare
in un quadro la sua esistenza, Laura ha scritto: «Userei
il rosso, perché il rosso è il colore del sangue e perché spesso
il mio cuore sanguina per ciò che è accaduto, o per quello
che mi accade durante le giornate. Ma userei anche il verde,
perché mi fa pensare agli spazi aperti, alla campagna, alla
gioia di poter essere libera, malgrado io trascorra la maggior
parte del mio tempo nella mia camera. Userei il nero,
perché simboleggia la tristezza che sperimento in certi momenti
e la condizione in cui mi trovo. E infine userei l’arancione,
che si colloca fra il rosso e il giallo, perché mi ricorda
sia l’alba sia il tramonto: la speranza di un nuovo giorno e
la conclusione della giornata, dove tutto si acquieta».
Le sue riflessioni Laura le condivide periodicamente in una
rubrica che tiene sul quotidiano La Sicilia. Ha debuttato con
un articolo pubblicato in prima pagina, l’antivigilia del Natale
del 2011, intitolato Il coraggio della vita. Gran parte dei testi sono
stati poi raccolti in Una forza di vita, un libro pubblicato nel dicembre
2017, sempre distribuito con il giornale della sua terra.
Coraggio e forza sono gli elementi che si saldano in una inguaribile
voglia di vivere che le fa guardare in faccia e accettare
la realtà con cui si misura senza censurare nulla, neppure
la disperazione o la tentazione di arrendersi. Emblematico un
altro dei suoi scritti: «Dormo pochissimo. Nel buio della notte
ogni dolore fisico e dell’anima sembra non poter mai guarire.
Ci si sente soli, abbandonati, disperati. In questi momenti
chiedo al Signore che mi porti via. Ripenso ai miei progetti e
mi sembra di sprofondare in un baratro. Piango. Però devo
stare attenta a piangere, perché se piango troppo non riesco
più a respirare, il respiratore si blocca. Muoio. E allora provo
a piangere dentro. Poi le ore passano, la vita riprende i suoi
ritmi, si comincia a sentire il rumore di qualche auto, si alzano
le saracinesche dei bar. Ce l’ho fatta. Al buio della notte segue
la luce di un nuovo giorno». Il buio e la luce, ovvero un’eterna
ciclica alternanza che su Laura ha l’effetto di una ricarica da
cui trarre sempre l’opportunità di un nuovo inizio per ripartire.
Così ha ricominciato anche a studiare e dopo quello di
spagnolo del maledetto giorno di luglio del 2010 ha sostenuto
altri sei esami ed è ormai in vista della seconda laurea.
Se c’è una cosa che alle équipe di sanitari che hanno seguito
il calvario di Laura è apparsa, se non incomprensibile,
quanto meno stupefacente è la serenità con cui lo ha affrontato.
Non ha mai negato un sorriso neppure nelle prime
due settimane di ricovero, quando quella pallottola era ancora
incastrata alla sommità della colonna vertebrale. Per
estrarla ed estirparla dalle sue carni è rimasta in sala operatoria
un’intera giornata. Nei successivi 17 mesi è stata
ospite del Montecatone Rehabilitation Institute, nel bolognese;
poi il rientro in Sicilia ai primi di dicembre del 2011
con un volo speciale attrezzato con apparecchiature elettromedicali
e una ulteriore lungodegenza presso l’unità spinale
unipolare dell’ospedale Cannizzaro di Catania. Giusto
nell’ottobre precedente si era concluso il processo di primo
grado contro Andrea Rizzotti, condannato a 18 anni di reclusione,
che sarebbero stati poi ridotti a 16 e mezzo dalla
Corte d’appello. Il conto con la giustizia Rizzotti lo sta pagando,
non pagherà mai però neppure un euro di risarcimento
alla famiglia Salafia in barba a quanto stabilito dai
giudici in sede penale. È risultato nullatenente, senza il becco
di un quattrino, senza beni da pignorare. E quand’è così
la magistratura è impotente.
La trafila ospedaliera per Laura si è conclusa nel luglio
del 2013, tre anni dopo quello che lei si ostina a definire un
incidente. Non risiede più a Sortino, il paese del Siracusano
in cui è cresciuta e che in Sicilia è famoso per il miele e per
il pizzolo, una focaccia ripiena che la ricetta classica vuole
farcita con peperoni. Il Comune di Catania le ha messo a
disposizione una casa in centro, un alloggio protetto con tanto
di elevatore per la carrozzina. Lì si sono trasferiti anche i
due anziani genitori e in più, dandosi il cambio, lì si alternano
Angela e Marcello, due operatori che la seguono con
professionalità, amore e umanità. Le terapie sono quotidiane
e durano l’intera mattinata. Quanto al pomeriggio, Laura
in genere lo passa davanti a un computer che le consente di
manovrare il cursore grazie a un dispositivo a infrarossi oppure
conversando con i tanti amici che le vengono a far visita.
Ogni tanto però si concede qualche passeggiata, benché
avventurarsi per il centro di Catania sia sempre un’impresa:
è disseminato di crateri, un’insidia costante per chi è costretto
a percorrerlo in carrozzina. «Tant’è che spesso ho rischiato
anche di cadere», sbuffa Laura. Di bello c’è tuttavia l’affetto
della gente, che la saluta, la ferma e la ringrazia. Di cosa?
«Per l’esempio che ci dai, per il coraggio che ci trasmetti
», le dicono. Sono parole che la toccano, che giovano al
morale, che la rincuorano. E che le fanno dire: «Nella vita
le grandi cose contano relativamente, a volte ciò che conta
di più è un semplice sorriso».
Laura dal collo in giù non può muovere nemmeno un muscolo,
ma ciò nonostante è una ragazza incredibilmente vitale.
Adora il mare e uno dei suoi crucci era che per nove
anni si è dovuta rassegnare a vederlo solo in fotografia o su
uno schermo. Immaginate la felicità quando nell’agosto del
2019 Alessandro Settipani, un quarantenne di Augusta relegato
anch’egli su una sedia a rotelle per un malaugurato
incidente in moto, l’ha invitata a un’escursione nella baia
che si spalanca davanti al borgo marinaro di Brucoli a bordo
del suo gommone appositamente attrezzato.
Un’altra passione di Laura è la musica e, se c’è un concerto
dalle sue parti che le interessi, non c’è santo che tenga.
Deve andarci. Alcuni le hanno lasciato ricordi indelebili. Come
la volta che Patti Smith l’ha notata in prima fila, si è 
avvicinata e si è messa a cantare tenendole la mano. Congedandosi,
le ha sussurrato in inglese: «Sei una grande donna»
e poi le ha regalato i plettri con cui pizzicava le corde della
sua chitarra. O come la volta che ad Acireale si esibiva Gianna
Nannini e la rockstar, subito dopo che si sono spente le
luci, le ha fatto sapere di volerla incontrare («È stata una lunga
conversazione, mi ha dato davvero tantissimo»). E quanto
l’ha commossa vedere Fiorella Mannoia intonare una canzone
che Laura conosce a memoria: quella che fa «Per quanto
assurda e complessa ci sembri, la vita è perfetta / Per quanto sembri
incoerente e testarda, se cadi ti aspetta / E siamo noi che dovremmo imparare
a tenercela stretta / Tenersela stretta».
Laura Salafia se la tiene davvero stretta la sua vita, anche
se non può cantarlo a squarciagola come la Mannoia, perché
lei ha solo un filo di voce. Ma quel filo basta per distillare,
nei tanti eventi pubblici in cui viene invitata, autentiche perle
di saggezza. C’è un concetto per esempio che questa fiera
donna siciliana ripete spesso e che in generale il popolo dei
cosiddetti “sani” non tiene mai presente, almeno finché la
vita non riserva brutte sorprese: «Quando ero nel pieno del
vigore ritenevo di poter fare tutto da me. Ora riscopro il senso
della fragilità della vita, l’incapacità di poter agire da sola.
Quando sono uscita per la prima volta in giardino, tanti anni
fa, a Montecatone, con mio papà, dieci mesi dopo la pallottola,
ci siamo fermati insieme ad ammirare gli alberi e i fiori.
Li annusavo tutti. Tante volte, presi dalla quotidianità e dalla
frenesia, non ci rendiamo conto dello splendore che ci circonda.
La natura, le persone, gli animali. Tutto. Allora mi
sono detta e continuo a ripetermi adesso, dopo tanti anni:
pazienza se non posso più muovermi, io voglio continuare a
gustarmela questa bellezza. Ho sempre fame di vivere e questa
fame non è mai venuta meno. Sono convinta che il Signore
mi abbia fatto un grande regalo: la capacità di non
arrendermi mai. Ecco perché dico a chiunque stia soffrendo
di non mollare mai, di diventare un guerriero della vita, di
trovare anche semplici appigli che possano permettere di
sorridere alla realtà che ci viene posta di fronte».
A una ragazza che le chiese se aveva perdonato l’autore
dello sparo che l’ha così duramente menomata, Laura rispose:
«Sì, il perdono è la prima arma che ti rende libera. Non
perdonare non serve a nulla, il rancore non ti fa crescere, ti
incupisce, il perdono ti fa andare oltre». Era il marzo del 2013
e quel giorno, in un teatro gremito di liceali, sul palco accanto
a Laura c’era suor Cecilia La Mela, una monaca di clausura
alla quale è legata da una profonda amicizia. «Siamo due
persone apparentemente diverse, ma accomunate da una
mano misteriosa che ci ha fatto incontrare» disse la religiosa
rivolgendosi alla platea. Una mano misteriosa che curiosamente
scelse di agire attraverso un ergastolano pluriomicida,
detenuto a Milano. Ha scritto a Laura e ne è nato uno scambio
epistolare. Poi sempre l’ergastolano ha preso l’iniziativa
di inviare una lettera alle sorelle del monastero di San Benedetto
di Catania, supplicandole di pregare per la guarigione
della giovane tetraplegica. Suor Cecilia, come l’ha avuta in
mano, non ha perso tempo: ha chiesto alla madre superiora
un permesso e il 29 gennaio del 2012 si è recata all’ospedale
Cannizzaro per conoscere Laura.
Suor Cecilia ha definito più volte Laura «fata di luce». Nella
tradizione popolare le fate sono buone e compiono magie.
E qualcosa di simile a una magia si è verificato attraverso la
corrispondenza fra Laura e l’ergastolano, come ha raccontato
lei stessa: «Conoscere la mia storia ha fatto scattare in lui
qualcosa di diverso, che ha tirato fuori ciò che di positivo aveva
dentro. Ha trovato nel mio modo di vivere una forza per
andare avanti. Ha studiato, ha preso il diploma e l’ha dedicato
a me. Poi si è iscritto all’università. In una delle lettere
mi ha scritto: “Laura, ho chiesto al Signore di darmi un segnale
di perdono e saprò che il Signore mi ha perdonato nel
momento in cui tu guarirai”. Io gli ho risposto: “Non c’è soltanto
la guarigione fisica, ma anche la guarigione dell’anima
e io l’ho raggiunta. Quindi, puoi sentirti perdonato, perché
io sono guarita”». Laura, suor Cecilia e l’ergastolano: la prima
prigioniera del suo corpo, la seconda di un convento di
clausura, il terzo di una cella. Prigionieri per sempre, ma forse
molto più liberi di tanti di noi.
Per Laura la fede ha avuto un ruolo fondamentale nell’accettazione
della sua grave disabilità. E a rafforzarla è
stato l’incontro al quale più teneva, quello con papa Francesco,
a Roma, il 10 settembre del 2016. «Il Papa ha posto
la sua mano sulla mia e con il suo sorriso paterno mi ha
detto: “Non mollare, sii forte e porta con fede la tua croce.
Prega per me”. Mi sono rimasti nel cuore gli occhi del pontefice.
Nel momento in cui essi hanno incrociato i miei, mi
sono immersa nella loro profondità. Ho visto la sofferenza
che il Papa sta portando: è come se stesse portando addosso
il dolore del mondo. E quel “prega per me” non era certo
una frase casuale».
A Roma, ad accompagnare Laura, c’erano anche Nino
ed Enza, la mamma e il papà. Lui ha superato abbondantemente
gli 80 anni, lei è vicina a quella soglia. Hanno entrambi
 un’età che per Laura ogni giorno di più è fonte di angosce
e di preoccupazioni: «Non ce la fanno più. Mio padre tutti
i giorni va a fare la spesa, sale con le borse, si fa due rampe
di scale. Io per mangiare poi ho bisogno di un’ora di tempo.
Non hanno un attimo di tranquillità. Mamma e papà hanno
diritto di poter vivere più sereni il tramonto della loro vita».
Qualcuno raccoglierà questo sacrosanto appello

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