L’altro giorno la mia amica Rosella mi ha detto: “smetti di leggere quello che stai leggendo, ti ho portato un libro. Devi assolutamente conoscere questo personaggio.” Lei è così, determinata, dritta al punto e io ho obbedito e ho “incontrato” Giancarlo Rastelli, un medico ma anzitutto un uomo eccezionale. Ecco la sua storia:
Rosangela, la sorella di Giancarlo in questo libro racconta la breve ma intensa vita di questo gigante della scienza e della carità. Giancarlo, Gian per gli amici, era nato a Pescara il 25 giugno del 1933 ed è morto in odore di santità al Methodist Hospital di Rochester in America a soli 36 anni per un linfoma. Da sempre appassionato della vita in tutti i suoi aspetti amava la montagna, le passeggiate con gli amici e andare a pescare durante le vacanze a Polesine Parmense sul delta del Po. Ma soprattutto amava la gente ,che fossero i barcaioli con cui usciva in barca e a cui insegnava per conseguire la licenza elementare o i giovani con cui si era inventata la prima Biblioteca Parrocchiale in paese.
A Parma frequenta la facoltà di Medicina e Chirurgia, si laurea,si specializza e diventa bravo, bravissimo nella diagnostica delle patologie cardiopolmonari, tanto da ricevere dalla Nato l’offerta di una borsa di studio per un anno. Gian sceglie la Mayo Clinic di Rochester. Lo studio e il duro lavorano lo portano ben presto a importanti scoperte nel campo della cardicardiochirurgia pediatrica e delle malattie cardiache genetiche. Nel 1964 ritornato dal viaggio di nozze scopre di avere un Linfoma. Studiare per diventare cardiochirurgo richiederebbe molto tempo e Gian sa che il suo di tempo si fa breve e allora si dedica alla ricerca. Lo studio e il duro lavoro lo portano ben presto a importanti scoperte nel campo della cardicardiochirurgia pediatrica e delle malattie cardiache genetiche. La classificazione e lo studio approfondito di quella parte del cuore conosciuta come Canale AtrioVentricolare gli apre la strada per trovare una metodica di cura di una cardiopatia congenita complessa che così può venir corretta chirurgicamente con i “Metodi Rastelli 1 e 2” ormai noti e applicati in tutto il mondo e che hanno salvato la vita di molti bambini, quegli stessi bambini che tanto spesso lui ha chiamato e accolto a casa sua in attesa di essere operati.
Tutto il suo lavoro, svolto fino all’ultimo nonostante la sofferenza per la malattia che l’affliggeva metteva al centro della sua attenzione il “fratello” malato. “Anche se sai di avere pochi minuti per la visita all’ammalato – era solito dire – entra, siediti accanto a lui, sorridi , prendigli la mano, incontralo come fratello di un unico destino, non come un numero o come un carcerato dell’ospedale. Incontralo in Cristo. L’ammalato è l’altro da servire”. “Perché – diceva – ho sempre pensato che la prima carità che l’ammalato deve avere dal medico è la carità della scienza. E’ la carità di essere curato come va curato”.
Nel 2005 il vescovo di Winona, in Minnesota, Bernard Joseph Harrington, ha concesso il nulla osta alla diocesi di Parma per l’apertura della causa di beatificazione.
di Claudia Ferrari
Una nostra amica ci scrive:
"Spes non confundit" così recita la bolla papale per il Giubileo dell'anno 2025. Eh sì la speranza non delude, soprattutto per noi cristiani questa dovrebbe essere una virtù cardine dell'esistenza. In tutti gli uomini esiste la speranza come desiderio di bene, di star bene. Tutti noi pensiamo a star bene cercando la soddisfazione dei nostri desideri, ma purtroppo diamo per scontato il nostro stato di salute, rimandando o addirittura negando il pensiero o la realtà della sofferenza, della malattia, della morte, quasi che se non ponendo attenzione ad esse non esistessero.
Ma queste tre condizioni fanno parte della vita umana, ben lo sa chi vive quotidianamente per lavoro o per scelta in un ambito sanitario dove questo desiderio si manifesta prepotentemente. Il confronto con il dolore, la malattia e anche la morte rimandano continuamente all’importanza che assume la vita, al dono inestimabile che costituisce per ciascuno e per gli altri. Noi medici e infermieri in mezzo alle disgrazie di ogni giorno viviamo con la speranza di far star bene tutti gli uomini e le donne che incontriamo sul nostro cammino, speriamo cioè che il nostro operato sia cura, sollievo e conforto.
Ci sono anche quelli che come me non sono “in prima linea, ma lavorano dietro le quinte” per far sì che tutti gli altri professionisti abbiano gli strumenti e le informazioni per trattare al meglio le persone. Il sapere dare un nome a una malattia, la comprensione del dolore che si può provare nel comprendere il proprio stato di salute e la conoscenza dell’evoluzione delle loro vite ci interroga continuamente e ci stimola a lavorare per comprendere meglio i fattori che determinano le patologie o che possono essere di ausilio per lo sviluppo di nuove terapie.
La speranza che mi guida non è il benessere globale perché è utopica, ma di adoperare tutta me stessa affinchè con il piccolo contributo del mio studio e lavoro possano giovarne i professionisti che trattano al meglio i pazienti, poter mettere le mie conoscenze al servizio dell’uomo inteso non come il singolo individuo, ma la specie umana in sé.
(di V.B.)
Quante situazioni difficili, quanti volti addolorati, quante fatiche vediamo dal banco della farmacia! E dietro ad ogni dolore c’è prima di tutto un volto: un volto che chiede attenzione, qualche minuto del nostro tempo, perché vuole essere ascoltato e soprattutto guardato.
Ecco allora che nella frenesia delle giornate lavorative ci si ferma, non a trasmettere parole di conforto (non si trovano mai parole “giuste” per alleviare una sofferenza!), ma a guardare quegli occhi che spesso sono tristi, spenti e gonfi di lacrime. Vedo ogni giorno situazioni di dolore e spesso di solitudine e allora capisco che per tante persone la vera medicina è il mio sorriso, il mio sguardo, l’attenzione alla loro situazione.
E’ stupendo vedere come i loro occhi, quando si sentono accolti, brillano di una luce nuova. E così si gioisce con loro quando arrivano in farmacia contenti per un esame di controllo andato bene, oppure ci si fa vicini al loro dolore quando le terapie sembrano non funzionare come dovrebbero. Nel mio lavoro ho capito questo piccolo ma grande “segreto”: di fronte al dolore dell’altro non dobbiamo temere di trovare le giuste parole di conforto, ma dobbiamo cercare di abbracciare la sofferenza, stando davanti alla loro preoccupazione e alle loro lacrime con cuore aperto.
Vedere come tante persone affidano le proprie preoccupazioni ad una semplice farmacista come me mi riempie di gratitudine e di gioia, e posso assicurare loro, che ho in mente il volto di ognuno di loro quando prego per i “miei malati”.
Di Anna Fontana - Bolladello di Cairate (VA)