La Quaresima ci prende per mano e ci accompagna fin sulla soglia del Mistero pasquale. Fino al precipizio del Golgota e fino al sepolcro vuoto, pochi metri più in là, nel giardino, in quell’alba radiosa della Resurrezione. Sappiamo bene come gli artisti abbiano immaginato Cristo crocifisso: a volte l’abbiamo visto trionfante, ad occhi aperti, in capolavori d’epoca romanica; più spesso ci ha commosso fino alle lacrime il “Christus patiens”, straziato dal dolore, col profluvio di sangue che sgorga dalle cinque 5 eventualepiaghe, in opere del Duecento gotico o del Seicento barocco. Ma c’è un crocifisso speciale, davvero straordinario, caro ai miei amici “Quadratini”.

È custodito in Navarra, nel Castello di Javier, ovvero di san Francesco Saverio, il missionario gesuita apostolo dell’estremo oriente. Se ti inginocchi ai suoi piedi, da povero mendicante, lui ti sorride e t’infonde uno sconfinato senso di pace; se invece ti accadesse di guardarlo dall’alto – dal punto di vista del Padre – riconosceresti un volto tremendamente serio e mesto.

Il dramma non è tolto, dunque. L’uomo Gesù di Nazareth ha sudato sangue nell’orto degli ulivi, ha chiesto al Padre che passasse da lui questo calice, è giunto ad urlare di sentirsi abbandonato. Osiamo troppo “immaginando” in questo volto di Figlio il volto del Padre, in quell’attimo decisivo? No! L’ha detto Gesù: “Chi vede me vede il Padre”, e lo vede anche nell’attimo supremo in cui il Cielo permette questa morte grazie alla quale muore la morte. Inimmaginabile dramma del Figlio specchio del Padre, visto da lassù.

Eppure, visto da quaggiù, è tutt’altra cosa: prostrato ai suoi piedi tu – uomo – riconosci che questo Crocifisso di Javier ti sorride. Allora anche tu, con tutta la tua fatica di IVDV 2vivere, sei attratto e quasi trascinato dentro questa misteriosa “perfetta letizia”, come la chiamava l’altro Francesco, quello d’Assisi. «L’uomo è lieto perché Dio vive: il suo è un dolore carico di letizia, ma è sempre dolore, un dolore di sé. E tuttavia è un dolore che ride, come quello dei bambini che sono caduti e hanno la faccia piena di lacrime e di pianto per il dolore che sentono, ma sorridono alla madre o al padre presente» (L. Giussani). Un giorno fui sorpreso dal fatto che Giacomo Leopardi, che aveva come quarto nome Francesco Saverio, e che da bambino aveva fatto uno splendido disegno a china del grande missionario gesuita, ne ha nascosto l’epica vicenda umana nella seconda strofa del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Eccola:

Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, e alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e più e più s’affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu volto:
abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando il tutto obblia.
Vergine luna, tale
È la vita mortale.

IVDV 3 serioNella Istoria della Compagnia di Gesù Il gesuita ferrarese Daniello Bartoli narra così l’avventura missionaria del suo confratello attraverso le desolate lande del Giappone, per piantarvi il seme del Vangelo (evidenzio col corsivo i calchi puntuali ripresi da Leopardi circa centocinquant’anni dopo): in un inverno “orridissimo”, in un paese “tutto selve, montagne, valli”, “e certe pendici boscose… smaltate di così duro ghiaccio, che sono più le cadute che i passi che vi si fanno”, andava “il santo apostolo, male in arnese di panni, sempre a piè e scalzo, con su le spalle il suo fardello”; egli passava “torrenti e stagni d’acque gelate”, senza alcun “ristoro”, a parte un pugno di riso.

“Il sant’uomo”, ardente di carità, “con gli occhi in cielo e l’anima in Dio andava senza avvedersene e senza punto sentirne il dolore, co’ piè gonfi dal freddo, attraverso delle spine e de’ bronchi e su per le acute schegge de’ sassi fuor di sentiero, dovunque l’impeto dello spirito il portava, lasciando brani di vesta agli sterpi, che gliela stracciavan di dosso, e stampando ogni orma col sangue che dalle gambe e da’ piè ignudi e laceri gli grondava”. Iddio, come in visione estatica, gli aveva donato di contemplare l’“obbiettivo”, immettendolo negli “abissi” delle cose future. È come se Leopardi dicesse: passano i secoli, ma uguale è il “travaglio usato” della vita. Diametralmente opposto è però l’esito: il viaggio del Recanatese precipita tragicamente nell’“abisso orrido immenso”; il viaggio di san Francesco Saverio si solleva ad altezze abissali – il Destino, la meta, l’obbiettivo ultimo – per cui il dolore fisico non è tolto, ma è sacrificio che vale la pena. È un dolore che ride.

 

4 eventuale

Il “Cristo che sorride” di Javier, statua lignea policroma del XV secolo

di Roberto Filippetti www.filippetti.eu

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Può la luce di una ribalta in un attimo, inaspettatamente, esaltare la vita, quella vera, fatta di gioie ma anche di dolori? E proprio quando, ascoltando delle canzoni desideriamo solo dimenticare il buio, le difficoltà, l’amarezza, il dolore del mondo? E’ quello che è successo a Sanremo quando Giovanni Allevi è salito sul palco per raccontarsi, per ringraziare in un inno alla vita dentro una strada di dolore. Così si è raccontato:

“All’improvviso mi è crollato tutto. Non suono più il pianoforte davanti al pubblico da due anni. Nel mio ultimo concerto alla Konzerthaus di Vienna il dolore alla schiena era talmente forte che sull’applauso finale non riuscivo ad alzarmi dallo sgabello. E non sapevo ancora di essere malato. Poi è arrivata la diagnosi, pesantissima. Ho guardato il soffitto con la sensazione di avere la febbre a 39, per un anno consecutivo. Ho perso molto: il mio lavoro, i miei capelli, le mie certezze. Ma non la speranza e la voglia di immaginare. Era come se il dolore mi porgesse anche degli inaspettati doni. Quali? Vi faccio un esempio. Non molto tempo fa, prima che accadesse tutto questo, durante un concerto in un teatro pieno ho notato una poltrona vuota. Come una poltrona vuota? Mi sono sentito mancare. Eppure, quando ero agli inizi, per molto tempo ho fatto concerti davanti a un pubblico di 15, 20 persone, ed ero felicissimo. Oggi, dopo la malattia, non so cosa darei per suonare davanti a 15 persone. I numeri non contano perché ogni individuo è unico, irripetibile e a suo modo infinito.

Un altro dono è la gratitudine nei confronti della bellezza del creato. Non si contano le albe e i tramonti che ho ammirato da quelle stanze dell’ospedale. Il rosso dell’alba è diverso dal rosso del tramonto e se ci sono le nuvolette è ancora più bello. Un altro dono è la gratitudine per la competenza dei medici, degli infermieri, di tutto il personale ospedaliero. La riconoscenza per la ricerca scientifica, senza la quale non sarei qui a parlarvi. La riconoscenza per il sostegno che ricevo dalla mia famiglia, per la forza che ricevo dagli altri pazienti. Li chiamo guerrieri, e lo sono anche i loro familiari e i genitori dei piccoli guerrieri. I veri guerrieri sono i genitori dei piccoli pazienti. Ho portato queste anime con me sul palco. Facciamo loro un applauso.

Quando tutto crolla e resta in piedi solo l’essenziale, il giudizio che riceviamo dall’esterno non conta più. Io sono quel che sono, noi siamo quel che siamo. E come intuisce Kant, il cielo stellato può continuare a volteggiare nelle sue orbite perfette, io posso essere immerso in una condizione di continuo mutamento, eppure sento che in me c’è qualcosa che permane ed è ragionevole pensare che permarrà in eterno. Io sono quel che sono. Voglio andare fino in fondo a questo pensiero. Voglio accettare il nuovo Giovanni. Come dissi in quell’ultimo concerto a Vienna,non potendo più contare sul mio corpo, suonerò con tutta l’anima. Il brano si intitola Tomorrow, perché domani, per tutti noi, ci sia sempre ad attenderci un giorno più bello.

(Giovanni Allevi)

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Eunice fu la donna che fece la differenza per le persone con disabilità intellettiva. Nata nel Massachussetts nel 1921, quinta dei nove figli della famiglia Kennedy aveva una sorella, Rosemary che aveva una disabilità intellettiva. Alla fine degli anni 50 queste persone erano emarginate, tenute nascoste, abbandonate a se stesse. Rosemary era una figura “sconveniente” per la famosa famiglia Kennedy ma Eunice le era molto affezionata.

Era cresciuta giocando con lei e facendo molto sport: nuoto, barca a vela, calcio. Aveva potuto apprezzare personalmente le potenzialità che l’attività sportiva offriva a persone come Rosemary e come lo sport potesse unire persone diverse ognuna secondo le proprie possibilità e caratteristiche. Eunice cominciò allora la propria battaglia. Iniziò a visitare gli istituti dove questi ragazzi erano ricoverati, parlò con gli specialisti delle disabilità intellettive e nel 1962 nel giardino di casa sua organizzò attività sportive per loro. Segregati,dimenticati e fonte di imbarazzo per la gente, molti di loro non avevano mai visto una piscina, alcuni neppure l’erba di un giardino. Potevano finalmente unirsi al resto del mondo e attraverso il gioco apprendere le regole di una più serena convivenza. Nel luglio del 1968 negli Stati Uniti d’America a Chicago vennero inaugurati i primi Giochi Internazionali Special Olympics.

Nel suo discorso, in occasione della Cerimonia di Apertura, Eunice Kennedy ha dichiarato che quei Giochi dimostravano “un fatto fondamentale” : “Che le persone con disabilità intellettive possono essere atleti eccezionali e che attraverso lo sport possono realizzare il loro potenziale... Questa nuova organizzazione, Special Olympics, offrirà a tutte le persone con disabilità intellettive la possibilità di giocare, la possibilità di competere e la possibilità di crescere”.
Ciò che è iniziato come la visione di una sola donna si è evoluto in Special Olympics, un Movimento globale che oggi coinvolge più di 4,7 milioni di persone con disabilità intellettiva in 200 paesi, Italia compresa.

“Trent’anni fa dicevano che non eravate in grado di correre i 100mt. Oggi, voi correte la maratona. Trent’anni fa, dicevano che dovevate rimanere chiusi negli istituti. Oggi siete di fronte alle televisioni di tutto il mondo. Trent’anni fa, dicevano che non potevate dare un valido contributo all’umanità. Oggi, voi riunite sullo stesso terreno dello sport nazioni che sono in guerra…”  (Eunice Kennedy Shriver Giugno’99 North Carolina)

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