Che cos’è la speranza?

Si può essere malati vivendo alla grande?

Si può vivere il centuplo quaggiù?

Racconto la mia storia per cercare di rispondere a queste domande che mi sono fatta.

Ciao a tutti, mi chiamo Tiziana, ho 40 anni, sono friulana e vivo in provincia di Udine.

All’età di 3 anni un grave incidente, quasi mortale, mi lascerà senza milza, segnandomi con una cicatrice sull’ addome, essa sarà causa di una grave mancanza di autostima. All’età di 14 anni l’inizio del calvario: l’arrivo del ciclo mestruale.

Adolescenza, cambiamento, accettazione, parole impossibili, perché il mostro che mi vive nel mio corpo, è ostacolo per la mia autostima, e per tutti i rapporti umani, che verranno. I medici e gli adulti, i familiari, non mi riconoscono una malattia, che è in grado di segnare negativamente ogni mia attività.

Mi ritrovo a dovermi vietare le prime storie d’amore, nemmeno a desiderarle, perché anche la sfera sessuale, come tutto il resto viene compromessa dal male. Il male si impossessa del mio corpo e della mente, ne aveva pieno controllo. Mi costringeva una volta al mese e saltare la scuola, le gite, tutte le attività, diventavano pura angoscia, ero impotente. Le persone incontrate sulla mia strada, compresi i fidanzati, mi faranno sentire sbagliata, brutta, inutile, mi etichettano come fannullona, svogliata, pazza. La vergogna di me stessa aumentava, gli svenimenti sempre più frequenti, l’assunzione di farmaci con dosaggi sempre più forti, le continue corse in pronto soccorso, il corpo ormai non reggeva più, visite mediche e viaggi negli ospedali, erano diventati la mia routine quotidiana. La testa scoppiava, il disagio aumentava. Il dispendio economico esorbitante.

Il mondo intero contro, ero sola.

Furono i 23 anni più brutti della mia vita, dolore, ansia, paura, angoscia, agonia, mi accompagnavano costantemente.

Gli anni passano, senza che il male receda, anzi.

Il primo barlume di speranza, arriva nel 2017, la prima diagnosi certa, (grazie ad un’ amica).

Finalmente un nome da dare a quel male, perché nominarlo serve ad affrontarlo e a starci di fronte.

D’ora in poi le persone mi avrebbero creduto, mi sarei riscattata, con me stessa e con il mondo.

Endometriosi al quarto stadio, il più grave (anomala presenza di endometrio, il tessuto che riveste la parete interna dell'utero, in regioni anatomiche diverse da dove dovrebbe trovarsi. Si localizza più frequentemente nelle ovaie, nelle tube, nel peritoneo, nella vagina, nell'intestino, in casi rari in polmoni e cervello, provocando una serie complicazioni e sintomi molto dolorosi, fino ad arrivare al danneggiamento degli organi interni, o addirittura la perdita di essi. E’ una malattia che ostacola la vita che può nascere in grembo, cronica, subdola invalidante, autoimmune, infiammatoria).

L’operazione resta l’ultima risorsa da utilizzare, ma purtroppo, ad oggi, non risolve il problema in via definitiva e non esiste cura farmacologica.

Mi metto in ascolto del mio bisogno, e “scatta” nel mio cuore, una domanda: “Signore, Dio, renditi visibile ai miei occhi anche in questa circostanza qui”, “Mi hai sostenuto fino ad ora, ti affido la mia vita”. Ma la verità, in fondo, è che feci la domanda senza crederci fino in fondo, senza credere in Lui. Mi dicevo: “impossibile che Dio stesso, possa scomodarsi per me, e farsi Presenza, chissà quanti altri deve guardare, io che non valgo nulla, che sono misera e piccola”.

Invece, improvvisamente… Accade!

Il Signore, con mia incredulità e stupore, inizia a darmi i primi segni, già durante il viaggio verso Milano.

09/10/2018 il giorno dell’ operazione, la rinascita e il centuplo quaggiù.

Un’amica, Memores Domini, mi fa avere un’ immagine della natività, con a lato questa scritta:

"nelle circostanze imprevedibili, inaspettate ed in quelle quotidiane, piene d' abitudine Tu sei la presenza che si svela e mi accompagna, sorgente della mia letizia, riposo della mia stanchezza. Tu sei la presenza che fa fiorire la mia vita. Accompagnata da questa sua frase: Ciò che conta è tenere gli occhi fissi su di Lui, come Maria, accoglierlo con tutto il nostro cuore dentro la "carne" delle circostanze!

Ne susseguirono tanti altri segni così…

Ne scaturì una domanda: ma io chi sono, che Dio, fa tutto questo per me e mi vuole così bene?PHOTO 2021 12 11 09 24 50

Mi sono commossa al solo pensarci, per tutto il bene ricevuto gratuitamente.

Il mio cuore è schizzato al settimo cielo per la gioia e le Bellezza vissuta.

In sala operatoria rimasi per 5 ore e ½ a causa della malattia tanto estesa.

Il ricovero dura 5 giorni.

La prima cosa che notavo era la vicinanza, non scontata, di mio marito accanto al letto, e tutto l’ affetto che proveniva dai miei genitori, parenti, amici, anche se lontani.

Nella stanza dell’ospedale, altre 3 donne, in degenza con me, iniziamo, spontaneamente, a prenderci “cura” l’una dell’ altra, facendo attenzione al bisogno di tutte e cerando, per quanto possibile, di esaudire le esigenze di ognuna.

Una ragazza in particolare, mi colpii, tant’ è che le dissi: "Ora sta roba qui non la voglio perdere"! e lei: "Nemmeno io, grazie perché, ora, mi dici ciò di cui ho più bisogno", ancora oggi, siamo profondamente amiche, sostenendoci a distanza. In quel luogo lì, con quei volti lì, ho percepito che stava accadendo qualcosa di inspiegabile, di familiare, stavo così bene, che ritardai la mia partenza verso casa, per poter passare un po più tempo con loro. Per me furono carezze del Signore, altri gesti della Sua inequivocabile Presenza.

Cosi predisposta da Lui, per i fatti accaduti, il mio sguardo attento, era come un radar in grado di captare ogni minimo segnale.

Ringrazio Dio per avermi dato più di ciò che avrei immaginato, mi ha dato 100, 1000 volte di più di ciò che avrei potuto immaginare io, il centuplo quaggiù (diceva Don Luigi Giussani).

Uscivo dall’ ospedale piena di gioia, sentimento che mi sono trovata addosso.

A casa il cambiamento continua, 5 mesi di menopausa farmacologica, mi mandano fuori fase, sia fisicamente che mentalmente. All’ inizio, sembra una fatica senza senso, si manifestano tutti i sintomi fisici della vera menopausa, impotente di fronte a tali manifestazioni, accetto con fatica quello che mi accade. Questo mio disagio, mina anche il rapporto con mio marito, che all’ inizio non comprende le mie reazioni. 

La vita ci mette costantemente alla prova, se ti fidi e ti abbandoni a Lui allora vedrai la gioia.

Dal giorno dell’ operazione, ho iniziato, a prendere tutto sul serio, ponendo attenzione, dai gesti più semplici, come potersi lavare da sola, cucinare, dipingere, a quelli più pesanti e impegnativi, portare a termine un lavoro, prendersi cura dei genitori. Domandandomi, come ti senti oggi Tiziana? Come sta il tuo corpo, che cosa ti chiede? Cosa segno è questo dolore, fino dove puoi sopportare? E’ normale o no? Perché tutto era impregnato del volersi bene.

Fondamentale è stato mio marito, grande uomo, unico sostegno e testimone del dolore che debba sopportare. Il suo volto, quello di un uomo che ti ama cosi come sei, che ama la tua malattia, da valore a te come donna, ti guarda, come se fossi la cosa esistente con più valore. E’ stato segno della Sua inequivocabile Presenza, incontrata attraverso i suoi occhi, sentita quando mi accarezza il viso in un certo modo, vista in alcuni gesti, riconosciuta quando mi commuovo, percepita nel cuore. Questo rapporto è cresciuto nel tempo diventando dono prezioso di grazia.

Assieme a questo, il non essere sola, ma dentro una compagnia, (per me, dal 2007, attraverso il carisma di Giussani, la fraternità di Comunione e Liberazione), mi ha permesso tutto questo, a poter guardarmi sul serio, a vedere mio marito come dono prezioso, i miei genitori come un bene per me, gli amici, indispensabili e vicini, con ogni gesto possibile, sostegno importantissimo.

Tiziana lavora, vive, aspira a quella che per le persone senza disturbi cronici è la normalità, un’esistenza senza l’assillo del dolore. Spera, lei come tutte le altre attaccate dall’endometriosi, che si arrivi a una cura efficace, ma, cosa ancora più importante, che si riconosca socialmente, mediaticamente, economicamente, politicamente, l’esistenza di tale malattia, subdola quanto aggressiva.

Ma tutto questo, adesso, non è determinante per poter vivere davvero!

Siamo tutti fatti per amare ed essere amati.

Tiziana, ora vive alla grande, non ha mai scordato quel giorno, e lo sguardo che bisogna avere sulla realtà, adesso festeggia il giorno dell’ operazione, perché grazie a quell’ evento, ha potuto amare totalmente se stessa, amare l’istante, non dare per scontato nulla, un gesto, un amico, un lavoro portato a termine, ancora un giorno vissuto.

Care donne, non vergognatevi MAI della vostra persona, amate il vostro corpo, confidatevi, apritevi, arricchitevi e vivete alla grande, perché il dolore sia vinto e non venga mai più concepito come condizione normale.

Avete il diritto di sentitevi belle, il dovere di apprezzarvi ed essere apprezzate, perché ognuno di noi è unico ed inimitabile!
Non lasciamoci determinare dal male, dal dolore, dalla malattia. Non deve vincere su di noi.

Uniamoci tutte. Urliamo al mondo intero, che noi esistiamo, non siamo invisibili, la malattia esiste.

Diamo un messaggio forte, per far capire, almeno un briciolo, di cosa stiamo vivendo.


Ti ringrazio di cuore per l’ ascolto e l’attenzione dedicatami.
Con immenso affetto
Tiziana

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Paolo Marchiori oggi ha 59 anni e da quando ne aveva 44 convive con la Sla, la sclerosi laterale amiotrofica. Non parla più ed utilizza un comunicatore oculare dalla tecnologia molto sofisticata per scrivere, leggere, navigare in internet ed inviare messaggi.

A lui, che ha sofferto moltissimo – «ho toccato il fondo della disperazione nei giorni angoscianti ed incerti della diagnosi e nel buio dei passi che ne sono seguiti» – e che nel percorso di fede ha trovato il senso della sua vita, abbiamo chiesto un parere sul primo sì in Italia al suicidio assistito.

«Secondo il mio parere e la mia esperienza di malato di sla con tracheostomia e tutto paralizzato, ritengo che oggi si parla di eutanasia con troppa superficialità perché non è un problema di tutti. Niente è scontato nella vita, Oggi si parla di suicidio assistito, ma dobbiamo analizzare caso per caso, non tutti hanno una famiglia che li assiste, non tutti hanno degli amici che li vanno a trovare, non tutti sono assistiti adeguatamente, per cui non possiamo giudicare le scelte di chi non ce la fa più a vivere quella condizione».

Non giudicare è l’imperativo categorico di Paolo. Capire che ogni situazione è differente. Che ciascuno è diverso.

«Bisogna capire il perché una persona fa una certa scelta – spiega -. La maggioranza parla a vanvera, non sa niente delle difficoltà quotidiane di un paralizzato, ma anche le difficoltà della famiglia, per cui lo stesso malato si può sentire un peso e con questo pensiero vive male. Io sono cattolico, e considero la vita una cosa sacra, ma da cattolico dico anche che c’è un limite alla sofferenza. Dico no all’accanimento terapeutico, oltre quello che un uomo puó sopportare, penso che anche Dio non accetti una sofferenza superiore al limite».

Il limite: quando si raggiunge? Chi lo stabilisce? Chi decide? Paolo è chiaro: «Il limite non è uguale per tutti, e mi altero quando sento dire che quel malato non accetta la malattia. Nessuno accetta una malattia, si accetta la condizione a secondo della voglia di vivere. Io abolirei la parola eutanasia e suicidio assistito e le sostituirei con “la libertà di scelta della propria cura”.

Dico questo perché un malato deve sapere e conoscere il proprio percorso di malattia, ed essere seguito da medici e psicologi. È indispensabile la presa in carico del malato perché la famiglia da sola non ce la fa. Io stesso vivo per mezzo di due ausili, un tubo per mangiare e uno per respirare. Nei primi anni della malattia ero contro la tracheostomia, poi nel momento critico ho cambiato idea. Ma tutto dipende dal proprio carattere e dal contesto in cui si vive e come si vive. Come si riesce a dare un senso alla propria vita anche in condizioni difficili».

La fede ha dato senso alla vita di Paolo Marchiori, anche nelle condizioni sempre più difficili, anno dopo anno:

«Qualcuno si illude che la fede tolga il problema della malattia. Ovviamente no: la sofferenza c’è e non la si può negare. C’è, per chi è malato e per chi lo assiste e gli vuole bene. Ma non è più quella sorda disperazione, ma è una sofferenza che dà speranza, perché ha un valore ed esso si trova nella fede».

Dare un senso alla propria vita per Paolo significa, per tornare alla notizia del consenso al suicidio assistito dato ad un uomo tetraplegico, «che ognuno, e lo dico da laico, deve avere la libertà di scelta nella propria vita; dobbiamo però capire il perché di certe scelte: ci sono troppe persone che soffrono e che sono dimenticate e quando uno decide di morire, la colpa è di tutti perché non si trova mai il tempo per andare a trovare un malato».

Più nel merito, Paolo Marchiori sottolinea che «possiamo fare tutte le leggi che vogliamo, e dare la possibilità di morire a chi vuole, ma diventa una sconfitta della società, perché non c’è una cultura della sofferenza, manca la cultura che aiuta a capire, ad accettare e a condividere. Questo porta le persone ad aver paura, per cui chi soffre rimane sempre più solo, e la solitudine ti uccide». Paolo ribadisce che «nemmeno Dio accetta l’accanimento terapeutico».

«Da cattolico posso anche essere contrario, al suicidio assistito, perché la vita è sacra, e la sofferenza offerta a Dio ha un grande valore salvifico, ma credo anche che quando una persona non ce la fa più, va accompagnata nella sua Pasqua – conclude Marchiori -. Non c’è bisogno del suicidio assistito, perché credo che sia sufficiente non accanirsi».

E poi un pressante invito: «Se abbiamo un po’ di tempo libero, dedichiamone una parte a chi vive in una struttura, e anche a domicilio. Sono persone che soffrono per la malattia, ma anche e soprattutto per la solitudine e il senso di abbandono».

di Anna Della Moretta - Giornale di Brescia 24/11/2021

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Ore di lutto per noi del Club.

Poco fa è salita in cielo Patrizia Donati, la nostra cara Patty.patty

La mia avventura con l’inguaribile voglia di vivere è iniziata con Mario Melazzini e con lei. Fu la prima persona colpita da una grave disabilità che incontrai e che raccontai tanti anni fa nel libro l'inguaribile voglia di vivere. Siamo rimasti vicini, amici, praticamente 15 anni. L'altro giorno ci aveva mandato un messaggio, a me e a Marco, che ora mi fa piangere e rimpiangere.

Rimpiangere il fatto di non averle potuto dare l’ultimo saluto. Aveva 62 anni Patrizia, dall'8 marzo 1993, festa della donna, viveva prigioniera del suo corpo. Doveva fare un picnic con la sua famiglia quel giorno, con suo marito e i suoi figli. Un ictus l'ha fermata.

In questi 28 anni abbondanti, immobile nel suo letto, capace di parlare solo attraverso il battito degli occhi, ha fatto tanto. Per tanti. A me ha insegnato forse un po' tutto. Con i suoi occhi. Con il suo silenzio. Diciamo che mi ha fatto capire un po' meglio cos'è la vita.

“Vivo perché Qualcuno mi ama” era la sciarpa che per 28 anni ha troneggiato sopra il suo letto. Mai un capello fuori posto, la sua tenacia, la sua testardaggine, il suo stupore, la sua curiosità su tutto ciò che capitava fuori dalla sua camera, diciamo la sua inguaribile voglia di vivere, hanno fatto scuola. Lezione. Amabile lezione.

Ciao Patty, continua a darci un occhio da lassù.

di Massimo Pandolfi (presidente del Club)

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