La paura del buio di Maurizio Galimberti è la ferita lasciata dagli anni passati in orfanatrofio. La passione per la fotografia non poteva perciò che passare attraverso l’utilizzo di una Polaroid, l’unica macchina fotografica che non necessitava della camera oscura per lo sviluppo delle fotografie. La vita, vista da bambino attraverso le inferriate delle finestre dell’istituto era spezzata in tanti piccoli quadretti.

Questo ricordo ha fatto interpretare dal fotografo la realtà con raffiche di scatti in tutte le angolazioni trasformandola in mosaici fotografici. I suoi ritratti a personaggi famosi come Johnny Deep portano alla fama la sua tecnica, un collage scomposto quasi un rimando al movimento dadaista francese di Dushamp. Spesso un profilo del volto sfuma da un’inquadratura all’altra perché come dice Galimberti: “La realtà è imperfetta, come potrebbe non esserlo anche la fotografia?” Chi meglio di lui poteva, in una mostra fotografica, portare alla luce i volti delle persone affette da sclerosi multipla con le mille sfaccettature della malattia, della paura e della speranza? “Questo per me -ha detto- è stato uno dei progetti più sfidanti ed emotivamente coinvolgenti. La prima cosa da raccontare è l'uomo con la sua vita, la sua sofferenza… È attraverso le esperienze di chi ha già ricevuto una diagnosi da tempo che i nuovi diagnosticati possono capire quali sono le diverse opportunità disponibili. Perché la sclerosi multipla è solo l’inizio di un nuovo capitolo e non la fine della storia”. Evviva la fotografia imperfetta!

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Due fratelli. Un padre e una figlia. Due storie straordinarie, se ne parla poco. L'amore donato, nel senso letterale del termine. Un rene per un fratello , un rene per una figlia…

Partiamo dai due fratelli, romagnoli, innamorati pazzi del basket. Enrico e Gianni. Gianni, per salvare la pelle, deve avere un rene nuovo: glielo ha donato nel 2020 suo fratello Enrico e ora questi due ragazzoni vanno in giro a raccontare la loro storia e di quanto sia importante donare. La loro è diventata quasi una missione. “È stato molto naturale - spiega Enrico - Non c’è mai stato un vero e proprio ostacolo. Mio fratello era in difficoltà e aveva bisogno di me”. E poi: “Ho realizzato al 100 per cento quello che stava succedendo nel momento in cui ci hanno stesi su un lettino”. Vi siete detti qualcosa? “Non me lo ricordo, ricordo però tanta tenerezza, tanto contatto fisico, occhi lucidi, mano nella mano, probabilmente poche parole. Le parole sono venute dopo. Prima c’era bisogno che ci svegliassimo, che fosse andato tutto bene”.

Gianni, il fratello che ha ricevuto il rene: “Ero molto in pensiero per mio fratello e sarei stato disposto a rinunciare al trapianto anche il giorno prima, se me lo avesse chiesto. La cosa grande l’ha fatta lui, non io. Io ho ricevuto. Io ringrazio ogni singolo giorno di essere ancora qui”.
A Gianni sta molto a cuore evitare ogni forma di pietismo o peggio ancora di superomismo. “Ad ogni incontro pubblico io e mio fratello cerchiamo di far capire che non stiamo sopravvivendo ma vivendo una nuova vita. Spesso la gente ti guarda e dice: cavolo ma ti muovi, giochi, ma che bravo. Non abbiamo bisogno della pietà degli altri. E più sbagliato ancora è pensare che chi dona un organo sia un eroe. Invece è una cosa naturale”.

Dai due fratelli a un padre e una figlia. La storia, pur nella diversità, ha molte analogie con quella dei fratelli Serra. Arianna Urgesi, 28 anni, aveva bisogno di un rene nuovo per salvarsi, In giugno l'emergenza: la madre era incompatibile per la donazione, il padre invece era ok. “Ho fatto le prove e sono risultato idoneo e compatibile – precisa Raffaele Urgesi, 56 anni, titolare di un’impresa edile – ed è stata una grande gioia. Per i miei figli, ho anche un ragazzo di 26 anni, farei questo e altro. Se ho avuto paura? No, il giorno dell’intervento ero tranquillo”.

La figlia ammette che “quando è venuto in camera a salutarmi, prima di andare in sala operatoria, ci siamo commossi, ma sapevamo di essere in ottime mani”.
Storie semplici, ma vere. E ci dimostrano di quanto sia importante non essere soli nella vita: c'è sempre qualcuno che si deve prendere cura di te, di me. Anche donando una parte di se stessi

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ARIALeggere questo libro è un’altalena di emozioni, quelle stesse emozioni che l’autrice Ada D’Adamo ci trasmette dalla prima all’ultima pagina; una sorta di diario in cui racconta la sua vita di donna, di mamma di una figlia “speciale”: Daria, gravemente disabile, nata con una rara malformazione cerebrale. E poi la sua lotta personale contro un tumore al quarto stadio che non le lascerà scampo (il libro ha vinto il Premio Strega postumo, Ada è morta il primo aprile di quest’anno).

Nel racconto di Ada c’è certamente tanto dolore, anche rabbia e paura, non ci risparmia nulla, a volte sembra di ricevere un schiaffo in piena faccia, ma in mezzo a tutto questo emerge il grande amore per questa figlia così fragile e bisognosa di tutto e lei, Daria, dal mistero silenzioso in cui vive, riesce in qualche modo a trasmettere attimi di tenerezza, di gioia, anche solo con un sorriso, uno sguardo, una piccola conquista nel “comunicare” qualcosa.
Questa simbiosi tra madre e figlia è soprattutto un comunicare di corpi più che di parole, un linguaggio fatto di carezze, abbracci, sorrisi ed ecco che quando Ada scopre di essere malata ed il suo corpo inizia a deperire, diventa fragile, lei pensa che questo la allontanerà dalla figlia, non potendo più accudirla come prima, sarà invece questa doppia fragilità di corpi a renderle, se possibile, ancora più unite.

Come D’Aria è un libro che ci insegna ad amare la vita, a coglierne la bellezza anche quando non sembra possibile.
“Per lungo tempo ho pensato che la mia malattia fosse incompatibile con la tua, che i nostri corpi malati non potessero convivere e, soprattutto, che non potessero parlarsi. Invece ogni comunicazione continua a passare attraverso il corpo, anche se malato. Anzi, oso dire in virtù del suo essere malato”
“Desideravo la bellezza e l’ho avuta: ho avuto te.”

 di Maria Grazia Campagnani

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