anna1Giovanni Amarelli grazie al Club L’Inguaribile voglia di vivere ha accompagnato sua figlia Agata di quatto anni e mezzo nel mese di agosto in Polonia per delle cure molto importanti legate alla paralisi cerebrale infantile che le è stata diagnosticata più di tre anni fa. Ci racconta Giovanni: “Siamo qui a fare qualcosa che in Italia ad oggi non è possibile (riabilitazione intensiva), ma io cosa ci faccio qui? Perché io? Perché Agata? Perché la mia famiglia è coinvolta tutta in questa "situazione"? Dove stiamo andando?”

Sabato 19 agosto 2023, a 33 anni, mi trovo, con mia figlia di 4 anni a condividere una serata con un gruppo di famiglie polacche (che non parlano nemmeno inglese) in un centro di riabilitazione in Polonia (a Male Gacno per essere precisi, una frazione della Polonia del nord composta da 60 case, nessun negozio e tanti boschi). 
Siamo seduti intorno ad un tavolo a bere acqua, succo d'arancia e qualche birra, non capisco praticamente nulla di quello che si dice, ci sono bambini dai 2 ai 12/13 anni. Alcuni sono seduti con noi, altri sul passeggino, altri ancora sono in carrozzina. Alcuni di questi bimbi non riescono a comunicare a parole ma utilizzano gesti e/o "versi". Anche loro vogliono interagire e questo è il loro modo di farsi sentire e di esprimere qualcosa (per me incomprensibile, per i loro genitori invece messaggi chiarissimi). Quella sera mi chiedo se, qualche anno fa, mi sarei mai aspettato di trovarmi in una situazione simile. Le famiglie, parlano, ridono, condividono. 
Io guardo, cerco di capire e parlo pochissimo. Sto con Agata, mia figlia, in braccio e ci raccontiamo qualcosa della giornata appena passata, di cosa faremo domani, di quanto ci manca la mamma e Enea (il fratello di Agata), ma anche di quanto abbiamo lavorato e ci siamo divertiti in questi giorni. La domanda che mi sorge spontanea da un momento all'altro è:
"Cosa ci faccio qui, stasera, con questa gente, in questo posto, ad agosto?"

anna2Si, siamo qui a fare qualcosa che in Italia ad oggi non è possibile (riabilitazione intensiva), ma io cosa ci faccio qui? Perché io? Perché Agata? Perché la mia famiglia è coinvolta tutta in questa "situazione"? Dove stiamo andando? Non ho mai avuto queste domande in maniera così chiara come questa sera. Così, da un momento all'altro, è come se avessi preso coscienza di dove ero in quel momento e di come fosse particolare quella situazione. Così, più tardi, dopo aver messo Agata a letto, torno a pensare a quanto sia incredibile quello che stiamo vivendo. Dopo qualche minuto le domande non sono diminuite, anzi... E le risposte hanno faticato ad arrivare. Ma ero certo di una cosa. Tutto questo percorso fatto con Agata mi sta facendo crescere come persona, come papà e come marito. Mi sta facendo guardare tutto con più serietà e interesse, mi sta facendo vivere un rapporto sempre più maturo con mia moglie. Mi sta facendo capire cosa sia la pazienza, cosa vuol dire desiderare, farsi aiutare, educare, soffrire e dedicare tempo ed energia a qualcun altro. Il lungo percorso che stiamo facendo con Agata è faticoso, molto faticoso.. ma se lo guardo con un po' di distacco, da lontano, per avere una visione più completa, non posso che ringraziare di essere qui, con lei, per lei, di sabato, ad Agosto, a non capire cosa stanno dicendo questi polacchi seduti intorno a me.

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C'è una storia che ha consumato qualche settimana fa il suo atto finale nelle Marche e che, a seconda di come vogliamo affrontarla, può diventare un concentrato di disperazione o di speranza. Noi optiamo per la speranza.

La notizia: una ragazza pesarese di 16 anni, Sofia Fraternale, è morta dopo una battaglia durata 14 mesi contro un tumore.

Lo so, di primo acchito può sorgere un moto di ribellione di fronte alla parola 'speranza': ma che diavolo di speranza ci può essere quando capita una tragedia simile? Non scherziamo, per favore.
Invece, ed è questa la straordinarietà della vicenda, c'è una luce che si è accesa ed è uscita, straripante, da questo fiume di disperazione. Una luce che sta facendo il giro d'Italia.
Sofia, già dai primi mesi della malattia, quando teneva per mano sua madre, i suoi famigliari e i suoi amici sorrideva e diceva loro: 'Sorridete anche voi, non abbiate paura'.
Non abbiate paura, sì: detto da lei che stava morendo.

La madre, Lucia, quando sua figlia è spirata ha detto subito: 'Il funerale di Sofia dovrà essere una festa'. Così è stato: allo stadio - il funerale si è celebrato in uno stadio - il prete ha fatto suonare proprio le campane a festa. Si piangeva, certo, perché è umano piangere quando qualcuno se ne va. Ma si è pure sorriso, come voleva Sofia, come voleva sua madre, come si sentivano di fare tutti. C'erano duemila persone ed è stata una giornata incredibilmente intensa. Tutti abbracciati.
Pensate che per mesi e mesi gli amici di Sofia avevano snocciolato i grani dei rosari: nella speranza anche del miracolo, sì. Non c’è nulla di più umano che chiedere un miracolo. Miracolo che non si è compiuto: Sofia è morta, non è guarita.
Un qualcosa che non è un miracolo ma forse qualcosa di simile, si è però compiuto a Pesaro: la speranza ha battuto la disperazione.
Come e perché?
Ognuno dia le sue risposte.
Ricordiamoci solo che siamo tutti dei poveretti,  ospiti provvisori di questo mondo, e anche se non ce lo diciamo mai, abbiamo tanto bisogno di dare un senso a ogni attimo della nostra vita. E ogni attimo è un mistero, in fondo. Ci fingiamo dei superman, ma siamo terribilmente fragili. Tutti. E a volte può anche essere, se non bello, più umano mostrare la nostra fragilità.

Ecco, l'arte della fragilità: la ragazza ci ha insegnato questa roba qui. E così si vive meglio.
Grazie, dolce Sofia

di Massimo Pandolfi

funerali sofia fraternale

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michaleLa notorietà, i fan, il successo non sono un baluardo che la malattia non può infrangere. Quando arriva colpisce l’uomo qualunque sia il suo nome. Certo chi è famoso ha più possibilità di dare voce al dolore e alla disperazione e può anche aprire più facilmente spiragli di speranza. Michael Fox quest’anno ha compiuto 62 anni. L’attore di “Ritorno al Futuro” cammina con il Parkinson, o meglio, il Parkinson ostacola il suo cammino da quando aveva 29 anni.

Nel pieno del successo scopre la sua malattia. La sua reazione è stata la negazione totale della realtà. Ai medici che gli comunicavano la diagnosi disse: “Ma sapete con chi state parlando? A me non può prendere”...

“Avevo paura che avrei perso tutto”. Dopo aver tentato di mascherare il più possibile la propria condizione sceglie di affrontare il problema annegando la paura nell’alcool. “Poi mi sono svegliato una mattina e ho visto il viso di Tracy, mia moglie. Mi ha detto: ‘È questo che vuoi?’ Immediatamente ho capito, questo non era ciò che volevo. Così ho smesso di bere nel 92. Ho intuito che se potevo scegliere riguardo al bere, potevo fare delle scelte anche riguardo al Parkinson”. Nasce così l’impegno nella Michael J.Fox Foundation, associazione che contribuisce alla ricerca sul Parkinson e riceve per questo motivo la Laurea Honoris Causa (lui che aveva abbandonato il liceo per fare l’attore!) dal ‘Karolinska Institutet di Stoccolma’, l’istituto che si occupa di assegnare i premi Nobel per la Medicina. “Accettare la malattia – dice- non significa rassegnazione, ma capire che ogni cosa è quello che è e che ci deve essere sempre un modo per passarci in mezzo. Mi vedo come se fossi un fluido che passa attraverso le crepe e le fessure”.
“Mi piace essere vivo. Amo la mia famiglia e il mio lavoro. Mi piace la possibilità di fare le cose. Ecco cosa è la felicità”.

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