Per Paolo Falessi, chitarrista della band “Ladri di Carrozzelle” fare delle diversità un fatto normale è lo scopo che lo muove da circa trent’anni. “Noi Ladri -racconta- siamo una ventina di persone intercambiabili, unite dalla musica e soprattutto siamo quello che non ti aspetti perché siamo bravi nonostante tutto”. Il loro debutto risale al 1989. Paolo è l’unico dei fondatori rimasti perché molti, a causa delle loro patologie oggi non riescono più a suonare. Ma questa bella storia è andata avanti nel tempo evolvendo giorno per giorno.

Questo gruppo di amici romani è diventato una finestra aperta su un mondo dove tante finestre non si aprono o non si vogliono aprire. Paolo racconta: “ Facciamo radio e televisione e, quando ci chiamano, ci esibiamo nei centri per persone con disabilità o nelle feste private promosse per fare beneficienza o nelle scuole. Adesso siamo una ventina e abbiamo dei laboratori, una specie di vivaio dove facciamo crescere sempre nuovi ragazzi. Fino ad una decina di anni fa, facevano parte del gruppo soltanto persone in carrozzina, ma poi abbiamo aperto anche a quelle con patologie psichiche, una scommessa folle che si è rivelata vincente.

Ci sono ragazzi che suonano con me e che si divertono allo stesso modo, sia di fronte a 40 che a 40.000 persone. Sono straordinari perché non hanno filtri e pensano di fare sempre la cosa più bella del mondo … Le disabilità sono per noi delle opportunità che vengono affrontate, risolte e ci danno la possibilità di fare cose straordinarie.” I Ladri hanno infatti partecipato al programma dedicato al sociale “ O anche no” andato in onda su Rai 2 ma hanno girato il mondo: Brasile, Stati Uniti, Africa. Sono stai al Parlamento Europeo, come eccellenza in Europa e a Washington per il riconoscimento come eccellenza italiana.

“Per quanto mi riguarda -dice Paolo- a cinquant’anni finiti, non avrei mai potuto andare a suonare in Uganda per una settimana se non ci fossero stati i Ladri di Carrozzelle. Insomma, quelli che dovrebbero essere gli “sfigati” sono quelli che si tolgono delle soddisfazioni straordinarie e danno delle opportunità anche agli altri. La frase che mettiamo spesso nei nostri video durante i concerti è questa: quando si sogna da soli è poca cosa, ma quando si sogna in tanti è la realtà che comincia ad agire”.

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logo fondazione chopsLa sindrome di Chops ha solo due particolari graziosi: il nome e occhioni da bambola con ciglia lunghissime. Invece la realtà è che Chops è un acronimo impietoso dove la C sta per ritardo cognitivo e le altre lettere descrivono gravi difetti cardiaci e polmonari, obesità, displasia dello scheletro e statura bassa, problemi uditivi e visivi. In Italia tre bambini sono affetti da questa Sindrome, trenta in tutto il mondo. Questa che raccontiamo è la storia di Mario e della sua famiglia e del loro coraggio.

Mamma Manuela e papà Giovanni alla comparsa dei primi sintomi si sono mossi innanzitutto per cercare di capire quali fosse la causa dei molti disturbi di Mario. Solo nel gennaio 2023 a quasi due anni dalla nascita, l’intuizione di un genetista bolognese indirizza verso la diagnosi di Chops. L’incontro casuale all’Ospedale Sant’Orsola di Bologna con i genitori di uno dei due bambini italiani affetto dalla sindrome dà loro nuovo coraggio e mette in moto la ricerca nel resto del mondo di chi soffre di questa patologia.

Ad oggi non esiste terapia per la Chops, ma riuscire a curare i tanti sintomi darebbe ai bambini una vita vivibile. Scoprire l’origine della mutazione genetica sarebbe il primo passo verso un farmaco ma purtroppo le malattie rare sono anche “orfane”. Per pochi bambini la ricerca non conviene, non fa business. “Così ci siamo mossi noi -spiega Manuela – e presto la Rete internazionale di famiglie con bambini Chops mi ha chiesto di farmi portavoce per raccogliere fondi per la ricerca, la sola speranza per i nostri figli”. Nasce così la “Fondazione Chops Malattie Rare Ets” che ha aperto una raccolta fondi.

Servono 400.000 euro per avviare la ricerca e grazie alla generosità che è subito scattata la Fondazione Chops ha arruolato una commissione composta da genetisti e ricercatori, capitanati da Ian Krantz lo scienzato americano scopritore della sindrome, che (gratuitamente) valutano i progetti internazionali. I primi 70mila euro sono già stati destinati a finanziare una compagnia Usa di biotecnologie che mira a individuare le terapie adeguate alla complessità dei sintomi. Inoltre la Fondazione sta per avviare un bando aperto a tutto il mondo per un progetto di ricerca che scopra i meccanismi genetici della sindrome.

Dice papà Giovanni: “… Oggi a Dio dico solo dammi la forza, donaci una speranza”…. e come Manuela sottolinea: “Mario forse è nato con questa missione, doveva smuovere tanti cuori, la gente dona perché vede i suoi grandi occhi e il suo sorriso”. Il logo della Fondazione Chops Ets è un bimbo che sale le scale con lo zaino sulle spalle, perché ogni bambino Chops ha la sua salita da fare e «anche Mario - dice Manuela - ha il suo zainetto e noi non sappiamo cosa porta».

Buon cammino Mario, saliamo quella scala insieme con te…

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La Quaresima ci prende per mano e ci accompagna fin sulla soglia del Mistero pasquale. Fino al precipizio del Golgota e fino al sepolcro vuoto, pochi metri più in là, nel giardino, in quell’alba radiosa della Resurrezione. Sappiamo bene come gli artisti abbiano immaginato Cristo crocifisso: a volte l’abbiamo visto trionfante, ad occhi aperti, in capolavori d’epoca romanica; più spesso ci ha commosso fino alle lacrime il “Christus patiens”, straziato dal dolore, col profluvio di sangue che sgorga dalle cinque 5 eventualepiaghe, in opere del Duecento gotico o del Seicento barocco. Ma c’è un crocifisso speciale, davvero straordinario, caro ai miei amici “Quadratini”.

È custodito in Navarra, nel Castello di Javier, ovvero di san Francesco Saverio, il missionario gesuita apostolo dell’estremo oriente. Se ti inginocchi ai suoi piedi, da povero mendicante, lui ti sorride e t’infonde uno sconfinato senso di pace; se invece ti accadesse di guardarlo dall’alto – dal punto di vista del Padre – riconosceresti un volto tremendamente serio e mesto.

Il dramma non è tolto, dunque. L’uomo Gesù di Nazareth ha sudato sangue nell’orto degli ulivi, ha chiesto al Padre che passasse da lui questo calice, è giunto ad urlare di sentirsi abbandonato. Osiamo troppo “immaginando” in questo volto di Figlio il volto del Padre, in quell’attimo decisivo? No! L’ha detto Gesù: “Chi vede me vede il Padre”, e lo vede anche nell’attimo supremo in cui il Cielo permette questa morte grazie alla quale muore la morte. Inimmaginabile dramma del Figlio specchio del Padre, visto da lassù.

Eppure, visto da quaggiù, è tutt’altra cosa: prostrato ai suoi piedi tu – uomo – riconosci che questo Crocifisso di Javier ti sorride. Allora anche tu, con tutta la tua fatica di IVDV 2vivere, sei attratto e quasi trascinato dentro questa misteriosa “perfetta letizia”, come la chiamava l’altro Francesco, quello d’Assisi. «L’uomo è lieto perché Dio vive: il suo è un dolore carico di letizia, ma è sempre dolore, un dolore di sé. E tuttavia è un dolore che ride, come quello dei bambini che sono caduti e hanno la faccia piena di lacrime e di pianto per il dolore che sentono, ma sorridono alla madre o al padre presente» (L. Giussani). Un giorno fui sorpreso dal fatto che Giacomo Leopardi, che aveva come quarto nome Francesco Saverio, e che da bambino aveva fatto uno splendido disegno a china del grande missionario gesuita, ne ha nascosto l’epica vicenda umana nella seconda strofa del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Eccola:

Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, e alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e più e più s’affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu volto:
abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando il tutto obblia.
Vergine luna, tale
È la vita mortale.

IVDV 3 serioNella Istoria della Compagnia di Gesù Il gesuita ferrarese Daniello Bartoli narra così l’avventura missionaria del suo confratello attraverso le desolate lande del Giappone, per piantarvi il seme del Vangelo (evidenzio col corsivo i calchi puntuali ripresi da Leopardi circa centocinquant’anni dopo): in un inverno “orridissimo”, in un paese “tutto selve, montagne, valli”, “e certe pendici boscose… smaltate di così duro ghiaccio, che sono più le cadute che i passi che vi si fanno”, andava “il santo apostolo, male in arnese di panni, sempre a piè e scalzo, con su le spalle il suo fardello”; egli passava “torrenti e stagni d’acque gelate”, senza alcun “ristoro”, a parte un pugno di riso.

“Il sant’uomo”, ardente di carità, “con gli occhi in cielo e l’anima in Dio andava senza avvedersene e senza punto sentirne il dolore, co’ piè gonfi dal freddo, attraverso delle spine e de’ bronchi e su per le acute schegge de’ sassi fuor di sentiero, dovunque l’impeto dello spirito il portava, lasciando brani di vesta agli sterpi, che gliela stracciavan di dosso, e stampando ogni orma col sangue che dalle gambe e da’ piè ignudi e laceri gli grondava”. Iddio, come in visione estatica, gli aveva donato di contemplare l’“obbiettivo”, immettendolo negli “abissi” delle cose future. È come se Leopardi dicesse: passano i secoli, ma uguale è il “travaglio usato” della vita. Diametralmente opposto è però l’esito: il viaggio del Recanatese precipita tragicamente nell’“abisso orrido immenso”; il viaggio di san Francesco Saverio si solleva ad altezze abissali – il Destino, la meta, l’obbiettivo ultimo – per cui il dolore fisico non è tolto, ma è sacrificio che vale la pena. È un dolore che ride.

 

4 eventuale

Il “Cristo che sorride” di Javier, statua lignea policroma del XV secolo

di Roberto Filippetti www.filippetti.eu

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