In questo mese, dedicato alla Madonna di Lourdes e quindi agli ammalati, desidero portare la mia piccola testimonianza di fede e ringraziamento.
Mi chiamo Loredana e la mia devozione alla Madonna risale fin da quando ero piccola. Mi ricordo che ogni volta che mi portavano in chiesa, mi affascinava il suo volto che mi fermavo sempre a fissarlo. Ricordo che quando mi sono sposata, ho lasciato a Lei il mio bouquet in segno di affidamento. Ad un certo punto della mia vita mi e’ sopraggiunta una grave malattia. Non pensavo che potesse accadere… e devo riconoscere che misteriosamente non mi sono abbattuta e ho affrontato il percorso con forza e serenità.
Una settimana prima di essere operata, una notte sognai di essere davanti alla Madonna, dentro la grotta a Lourdes proprio come se fosse ora (io non c’ero mai stata) e lei mi guardava senza parlarmi. Mi svegliai un po’ spaventata … non riuscì più a dormire e mi chiedevo cosa poteva significare quel sogno . Arriva il giorno dell’intervento, mi operarono e dopo alcuni giorni tornai a casa. Sognai ancora la Madonna di Lourdes e come la volta precedente mi domandai il perché . Dopo qualche giorno mi chiamarono dall’ospedale per comunicarmi che l’intervento fatto aveva per fortuna esito negativo .. cioè non avevo più la malattia terribile e che non necessitavo più di nessuna terapia ! Subito mi sono recata in chiesa per ringraziare la Madonna e mentre pregavo capii che Lei mi aveva protetta.
Decisi perciò di fare qualcosa di concreto per chi invece era nella malattia e decisi di andare a Lourdes per accompagnare chi era nella sofferenza e di assisterli e donare a Lei tutto ciò che avrei incontrato. Da allora, era il 1985,con l’Unitalsi mi reco una settimana all’anno per sostenere e aiutare gli ammalati. Torno sempre più convinta che la Madonna mi ha chiamata attraverso la malattia ad un cambiamento della mia vita. Ora guardo tutto ciò che mi accade in modo diverso perché sono certa che Lei c’è e mi protegge .
di Loredana Bosetti
L’altro giorno la mia amica Rosella mi ha detto: “smetti di leggere quello che stai leggendo, ti ho portato un libro. Devi assolutamente conoscere questo personaggio.” Lei è così, determinata, dritta al punto e io ho obbedito e ho “incontrato” Giancarlo Rastelli, un medico ma anzitutto un uomo eccezionale. Ecco la sua storia:
Rosangela, la sorella di Giancarlo in questo libro racconta la breve ma intensa vita di questo gigante della scienza e della carità. Giancarlo, Gian per gli amici, era nato a Pescara il 25 giugno del 1933 ed è morto in odore di santità al Methodist Hospital di Rochester in America a soli 36 anni per un linfoma. Da sempre appassionato della vita in tutti i suoi aspetti amava la montagna, le passeggiate con gli amici e andare a pescare durante le vacanze a Polesine Parmense sul delta del Po. Ma soprattutto amava la gente ,che fossero i barcaioli con cui usciva in barca e a cui insegnava per conseguire la licenza elementare o i giovani con cui si era inventata la prima Biblioteca Parrocchiale in paese.
A Parma frequenta la facoltà di Medicina e Chirurgia, si laurea,si specializza e diventa bravo, bravissimo nella diagnostica delle patologie cardiopolmonari, tanto da ricevere dalla Nato l’offerta di una borsa di studio per un anno. Gian sceglie la Mayo Clinic di Rochester. Lo studio e il duro lavorano lo portano ben presto a importanti scoperte nel campo della cardicardiochirurgia pediatrica e delle malattie cardiache genetiche. Nel 1964 ritornato dal viaggio di nozze scopre di avere un Linfoma. Studiare per diventare cardiochirurgo richiederebbe molto tempo e Gian sa che il suo di tempo si fa breve e allora si dedica alla ricerca. Lo studio e il duro lavoro lo portano ben presto a importanti scoperte nel campo della cardicardiochirurgia pediatrica e delle malattie cardiache genetiche. La classificazione e lo studio approfondito di quella parte del cuore conosciuta come Canale AtrioVentricolare gli apre la strada per trovare una metodica di cura di una cardiopatia congenita complessa che così può venir corretta chirurgicamente con i “Metodi Rastelli 1 e 2” ormai noti e applicati in tutto il mondo e che hanno salvato la vita di molti bambini, quegli stessi bambini che tanto spesso lui ha chiamato e accolto a casa sua in attesa di essere operati.
Tutto il suo lavoro, svolto fino all’ultimo nonostante la sofferenza per la malattia che l’affliggeva metteva al centro della sua attenzione il “fratello” malato. “Anche se sai di avere pochi minuti per la visita all’ammalato – era solito dire – entra, siediti accanto a lui, sorridi , prendigli la mano, incontralo come fratello di un unico destino, non come un numero o come un carcerato dell’ospedale. Incontralo in Cristo. L’ammalato è l’altro da servire”. “Perché – diceva – ho sempre pensato che la prima carità che l’ammalato deve avere dal medico è la carità della scienza. E’ la carità di essere curato come va curato”.
Nel 2005 il vescovo di Winona, in Minnesota, Bernard Joseph Harrington, ha concesso il nulla osta alla diocesi di Parma per l’apertura della causa di beatificazione.
di Claudia Ferrari
Una nostra amica ci scrive:
"Spes non confundit" così recita la bolla papale per il Giubileo dell'anno 2025. Eh sì la speranza non delude, soprattutto per noi cristiani questa dovrebbe essere una virtù cardine dell'esistenza. In tutti gli uomini esiste la speranza come desiderio di bene, di star bene. Tutti noi pensiamo a star bene cercando la soddisfazione dei nostri desideri, ma purtroppo diamo per scontato il nostro stato di salute, rimandando o addirittura negando il pensiero o la realtà della sofferenza, della malattia, della morte, quasi che se non ponendo attenzione ad esse non esistessero.
Ma queste tre condizioni fanno parte della vita umana, ben lo sa chi vive quotidianamente per lavoro o per scelta in un ambito sanitario dove questo desiderio si manifesta prepotentemente. Il confronto con il dolore, la malattia e anche la morte rimandano continuamente all’importanza che assume la vita, al dono inestimabile che costituisce per ciascuno e per gli altri. Noi medici e infermieri in mezzo alle disgrazie di ogni giorno viviamo con la speranza di far star bene tutti gli uomini e le donne che incontriamo sul nostro cammino, speriamo cioè che il nostro operato sia cura, sollievo e conforto.
Ci sono anche quelli che come me non sono “in prima linea, ma lavorano dietro le quinte” per far sì che tutti gli altri professionisti abbiano gli strumenti e le informazioni per trattare al meglio le persone. Il sapere dare un nome a una malattia, la comprensione del dolore che si può provare nel comprendere il proprio stato di salute e la conoscenza dell’evoluzione delle loro vite ci interroga continuamente e ci stimola a lavorare per comprendere meglio i fattori che determinano le patologie o che possono essere di ausilio per lo sviluppo di nuove terapie.
La speranza che mi guida non è il benessere globale perché è utopica, ma di adoperare tutta me stessa affinchè con il piccolo contributo del mio studio e lavoro possano giovarne i professionisti che trattano al meglio i pazienti, poter mettere le mie conoscenze al servizio dell’uomo inteso non come il singolo individuo, ma la specie umana in sé.
(di V.B.)