Alzi la mano chi, almeno una volta nella sua vita, non si è sentito di troppo.
A scuola, in famiglia, in vacanza, con gli amici, in discoteca, al lavoro, ovunque.
Poi passa, intendiamoci, ma è uno stato d'animo che c'è. Esiste, fa parte della nostra esistenza.
Negli ultimi mesi-anni il “sentirsi di troppo” viaggia in parallelo anche con le eterne battaglie giuridiche e legislative che si combattono attorno a quello che viene definito il fine vita. Se uno non ce la fa più - perché è un malato terminale, perché a causa di un incidente o un malore ha mille limitazioni fisiche, eccetera eccetera - dovrebbe avere il diritto, secondo molti, di fermarsi. Chiedere di morire. Praticare il suicidio assistito o addirittura l'eutanasia.
In questo pentolone entra sempre più spesso il sentirsi di troppo di partenza. A un certo punto un malato terminale può sentirsi di troppo, certo. Un vecchio si sente di troppo in continuazione, teme magari di frenare la libertà dei suoi figli che devono prendersi cura di lui, magari badarlo.
C'è una cosa importante da scrivere, scomoda, ma scriviamola: non possiamo dire che continuare a vivere e smettere di vivere sia la stessa cosa. No! Chi vuole vivere deve avere una corsia preferenziale perché c'è sempre, sempre!, la possibilità di dare un significato a un'esistenza, anche a quelle che sembrano più inutili. E il primo sforzo di un mondo civile deve essere quello di provare a dare un senso alla vita di tutti. Si può, succede tantissime volte, c'è gente stupenda che sta a fianco di un malato o di un vecchio fino all'ultimo, riaccende la loro voglia di vivere. Costa alle casse dello Stato, certo, ma sono soldi spesi bene.
Si può contrastare il sentirsi di troppo: con l'amore, con la cura. Non facciamo per piacere una legge dove, chi si sente di troppo, ha tutto il diritto di farla finita.
Cambiamo prospettiva: abbracciamo chi si sente di troppo. Coccoliamolo. Vogliamogli bene.
Non fermiamoci al notarile: sia fatta la sua volontà. Troppo semplice, disumano.
di Massimo Pandolfi
Il nostro amico e socio Stefano sollecitato dalla lettura delle testimonianze che ogni mese pubblichiamo nelle newletters ha desiderato donarci il racconto della vita del suo amato papà Tiziano. Quest’uomo ha infatti portato “l’inguaribile voglia di vivere” nella vita di molte persone oltre ai suoi famigliari.
“Penso alla vita del mio papà Tiziano, sfoglio vecchi documenti e immediatamente intuisco il cammino, le difficoltà, le vicissitudini, la fatica, ma allo stesso tempo, quanta speranza aveva nel cuore, sempre alla ricerca di qualcosa o qualcuno che lo guidasse per chissà quale strada, una vita quindi sempre alla ricerca della verità.
Papà nasce a Mirandola nel 1940 e ancora adolescente inizia a lavorare in una cooperativa agricola come apprendista viaggiando tra l’Emilia e il Piemonte.Qualche anno dopo nel 1958 inizia un nuovo lavoro come marmista. Sono anni difficili ma deve aiutare la sua famiglia in un momento di difficoltà. E solo un anno dopo nel dicembre del 1959 con l’alluvione nel modenese, dopo aver perso tutto, e ancora minorenne, lascia Mirandola e i suoi cari per trasferirsi a Castronno (VA), dopo aver trovato lavoro nelle acciaierie di Solbiate Arno.
Siamo a dicembre ed i nuovi datori di lavoro si trovano di fronte un ragazzino minorenne in pantaloncini corti ed una maglietta estiva, che calza un paio di zoccoli in legno (tutto quello che aveva potuto salvare dall’alluvione); poco era rimasto ma tanta era la voglia di ricominciare per risollevarsi e per aiutare la sua famiglia ancora lontana ed in difficoltà. A Castronno incontrerà e sposerà nel dicembre del 1962 una giovane donna, ed insieme, innamorati della vita e con tanta speranza nel cuore, iniziano il loro nuovo cammino insieme, rimanendo uniti per 56 anni. Diverse sono state le esperienze che hanno aperto il suo cuore alla fede e ad adoperarsi per far vivere ai più giovani la gioia dello stare insieme e della condivisione di ciò che si ha.
Con caparbietà papà è riuscito a far riaprire l’oratorio di Cascina Grossa ( piccolo paese appena fuori Alessandria, dove era giunto insieme con la mamma per curare una nipotina durante il periodo estivo per la chiusura della scuola materna), realtà non più valorizzata da tempo e in disuso. Con il sostegno del parroco, papà incontra per le strade di Cascina Grossa e Litta Parodi i giovani, i bambini, le famiglie, riesce perfino a coinvolgere una famiglia proveniente dal Pakistan, da poco arrivata in paese, invita tutti la domenica successiva in oratorio per discutere con loro e per proporre una sua idea. Organizzerà tornei di bocce per bambini dai 5 anni fino alla maggiore età, e il suo sogno diventerà realtà. Per diversi anni organizzerà questi tornei con grandi risultati e l’oratorio sarà sempre colmo di giovani e famiglie e alla presenza dell’Assessore della Cultura e dello Sport di Alessandria, verrà premiato più volte PER L’IMPEGNO E IL LAVORO SVOLTO A FAVORE DEI GIOVANI.
A testimonianza di tutto ciò anche durante i pochi mesi di malattia papà ricevette le visite dei suoi giovani. In ospedale durante il suo ricovero, don Antonio Innocenti suo grande amico gli amministra il Sacramento con l’Olio degli Infermi. Insistentemente chiede più volte di pregare la Madonna e don Antonio in dialetto risponde così “Tiziano non preoccuparti ne diremo anche due o tre di Ave Maria”.Dimesso il 1 ottobre 2018, pochi giorni dopo il 4 ottobre papà renderà serenamente la sua anima a Dio tra le mie braccia, stringendo la mano della sua compagna di una vita. Il giorno dei suoi funerali in San Giulio erano presenti i suoi ragazzi di Cascina Grossa e Litta Parodi ed Alessandria ( anche il giovane del Pakistan) e molte delle loro famiglie. I giovani del nostro oratorio di San Giulio che anni prima erano stati chierichetti, serviranno la messa con le tuniche bianche per onorare il loro nonno Tiziano, conosciuto nelle vacanzine delle medie.
Anche la Statua della Madonna del Rosario posta sull’altare maggiore i giorni precedenti per la festa patronale, ha coronato il suo sogno, aspettandolo quasi a volerlo prendere per mano in quell’istante nella messa del suo funerale. Papà, uomo di speranza, con la sua voglia di vivere, ha testimoniato la gioia, la fede, la sua missione è stata quella di far crescere nei giovani la voglia di verità, nel progetto del Padre attraverso la realtà dell’oratorio. Papa Francesco ci ricorda nel libro Gaudete ed exsultate (esortazione apostolica sulla chiamata alla Santità nel mondo contemporaneo) : “per un cristiano non è possibile pensare alla propria missione sulla terra, senza concepirla come un cammino di santità, perché questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione.
Ogni santo è una missione, un progetto del Padre per riflettere e incarnare, in un momento determinato della storia, un aspetto del Vangelo” Papà nella sua semplicità e nel suo piccolo ha testimoniato tutto questo, la sua vita è stata la missione che Dio ha messo nel suo cuore.”
di Stefano Danielli
Luigi Manconi, con la consueta lucidità e passione civile, ha più volte sostenuto il diritto all’eutanasia. Recentemente ho avuto modo di conoscerlo personalmente attraverso il nostro testimonial Alessandro Bergonzoni e ho apprezzato molto la sua determinazione ed anche autoironia (un aspetto positivo che non conoscevo) nell’affrontare una grave disabilità con la quale convive.
Rispetto il suo punto di vista e proprio per questo rispetto, sento il dovere di sollevare una riflessione critica e portare un altro sguardo: quello di chi convive con la disabilità, con lo stato vegetativo, con il dolore quotidiano e la speranza. Non partirei da Beppino Englaro e dalla vicenda di sua figlia Eluana - per quanto coraggiosa, dolorosa e simbolica - ma da quelle migliaia di famiglie che ogni giorno assistono i propri cari nelle condizioni più estreme. Sono persone che attendono non la morte, ma un’assistenza adeguata, una legge sul caregiver, un accompagnamento sostenuto e condiviso nel ritorno a casa dopo l’ospedale. Sono storie spesso invisibili, ma vere, fatte di lotta, attesa e desiderio di vita, anche se compromessa.
Il rischio concreto è che una legge sull’eutanasia, se non fondata su una visione pienamente inclusiva, possa diventare una rinuncia: alla cura, alla riabilitazione, al valore stesso della fragilità. In rianimazione, per esempio, già ora c’è il pericolo della scelta, di negare opportunità a chi sembra non averne, solo perché il recupero potrà essere incerto, difficile e costoso. Eppure, quante persone abbiamo visto tornare a una vita dignitosa anche dopo gravissime lesioni?
La vera questione, allora è un’altra: abbiamo davvero fatto tutto per garantire il diritto a vivere, anche con fragilità, prima di invocare il diritto a morire? Perché troppo spesso il desiderio di morire nasce da solitudine, abbandono, mancanza di alternative.
Le cure palliative oggi sono ben più che un antidoto al dolore fisico: sono percorsi esistenziali, relazionali, spirituali. Accolgono, ascoltano, proteggono. Offrono uno spazio di senso, ridando valore anche al tempo più fragile. Parlare solo di “fine vita” rischia di oscurare questo tempo fondamentale del “durante vita”, in cui ogni persona ha ancora bisogno di contatto, di relazioni, di sguardi autentici.
La dignità non si gioca solo nel momento della morte, ma in ogni giorno che la precede. Ed è per questo che serve un confronto aperto che riconosca il valore della libertà individuale e, insieme, la tutela della vita fragile..
Un Paese civile non è quello che semplicemente permette di morire, ma quello che non lascia nessuno solo mentre è ancora in vita. Serve un cambiamento culturale e sociale che investa sulla rete del prendersi cura, sulla presenza accanto a chi resta, su chi vive nella sofferenza.
Per questo, propongo un “negoziato di pace” tra le diverse componenti del nostro Paese - laiche, cattoliche, politiche. Perché rinuncino a contrapposizioni ideologiche e si ascoltino davvero. Un confronto vero, che non divida, ma unisca e che impegni il Governo al rispetto e alla tutela delle diverse componenti. Che parta dalla comune responsabilità di dare dignità, libertà e accompagnamento a tutte le persone, fino all’ultimo respiro.
Solo così potremo arrivare a una legge che non divida, ma riconosca il valore umano di ogni fase dell’esistenza. Prima ancora del diritto a una buona morte, è fondamentale affermare il diritto a una buona vita anche, e soprattutto, nel dolore e nella convivenza con la malattia.
Una normativa davvero condivisa potrà garantire dignità, scelta, cura e accompagnamento, nel rispetto di tutte le coscienze.
di Fulvio De Nigris - Avvenire 26/06/25