La Toscana ha voluto fare la prima della classe. E ha approvato una sua legge regionale per sostenere il suicidio assistito. L'Emilia-Romagna aveva bypassato il problema, evitandosi il confronto assembleare, con una delibera della giunta Bonaccini. Il quadro tra le Regioni è molto diversificato e incerto. In diverse è comunque arrivata la proposta di legge popolare cosiddetta "Cappato", dal suo principale propugnatore.

Al momento, nel circuito politico, il tutto sembra schematizzato in due sole argomentazioni: battaglia di civiltà e di dignità, dalla parte dei favorevoli all'eutanasia, e "non è di competenza regionale", la replica standard di chi - convinto o meno - non concorda. Ora, che non sia di competenza regionale, è lapalissiano. Non può esistere, su un tema così delicato, che esistano soluzioni diverse tra le Regioni. Tuttavia ci si chiede se chi dice di non concordare con i contenuti della proposta-Cappato (et similia) abbia altri argomenti di merito, a parte la tecnica dilatoria (legittima, sia ben chiaro) che punta sul fatto che a Roma, per ora, ci sarebbe una maggioranza teoricamente non pro eutanasia.

Il tema di fondo, pensando alla coscienza distratta o stanca di questo Paese, non è quali siano le competenze, ma quali siano la ragioni culturali, ideali ed educative per sostenere la vita umana e non considerarla, ad un certo punto e a certe condizioni, solo uno scarto da eliminare, aggravato da eventuale solitudine. Senza considerare poi la contraddizione in cui si troverebbe il sistema sanitario e i medici che giurano con Ippocrate: il cui scopo unico e fondamentale è la vita, la cura, non la morte. Ma ne siamo certi, il fine vita non resterà solo in Toscana, avanzerà e costringerà tutta la politica e tutti noi, prima o poi, a una scelta. O a qualche compromesso, oppure a una resa.

di Gianni Varani

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Borel, 15 anni fa, era un ragazzino africano, del Camerun: una tubercolosi ossea che gli lese la colonna vertebrale gli impediva di camminare. Strisciava a terra, come un neonato. La sua famiglia si vergognava a portarlo fuori di casa, perché in quel Paese la tradizione ti imponeva o quasi di nascondere i disabili. Questa storia di Borel prigioniero in casa sua è durata per tanti anni.
Poi si è accesa una luce, grazie a un incontro.

Un connazionale di Borel, Francis Sietchiping Nzepa, un medico che poi ha fatto fortuna in Europa, ha deciso di prendersi cura di lui. Francis, il dottor Francis, ha conosciuto il Club, che gli ha dato una mano, e insieme a lui (12 anni fa) siamo riusciti a compiere un piccolo grande miracolo. E cioè: Borel è venuto in Italia, è stato operato e dal 2015 cammina, si è costruito una sua vita. Grazie a Francis, grazie al Club, grazie a dei medici sensibili e ai titolari di Villa Maria a Cotignola di Ravenna. 
Quello di Borel è uno dei progetti più belli che abbiamo realizzato, ma quello che continua ad accadere a distanza di tanto tempo è qualcosa di ancora più bello.

Osiamo definirlo straordinario. Il dottor Francis è diventato un amico di tanti di noi e appena 'scappa' dalla sua clinica di Parigi, dove è primario di gastrointerologia, viene a fare un saluto agli amici romagnoli del Club. In primis a Claudia Sbaragli, la nostra consigliera che si mise in gioco e costruì con lui la rinascita di Borel. Quanti frutti da questa storia! Pensate che la scorsa estate il dottore camerunense si è sposato in Francia: sua mamma è morta, qualcuno doveva portarlo all'altare e allora ha scelto, ha voluto Claudia, la nostra Claudia Sbaragli, al suo fianco. L'ha portato lei fino all'altare, per consegnarlo a Nathalie, sua moglie. Claudia è diventata per Francis la sua nuova mamma. Straordinario.

Un paio di settimane fa, a cena con Francis, ci siamo commossi a ricordare ciò che abbiamo fatto per Borel e ancora di più cosa abbiamo costruito fra di noi.
Va detta una cosa: di Borel non abbiamo notizie fresche, perché la vita è fatta così, a un certo punto c'è anche ci si allontana e guai giudicare. Anzi. L'importante è che il ragazzo si sia costruito una strada e un futuro; ci interessava quello, lasciamolo correre, ora che può, per la sua strada.
“Aiuta e dimentica” ci ha detto col sorriso il dottor Francis. E' una frase che pronunciava sempre la sua mamma naturale, ora è diventato il suo motto.
Aiuta e dimentica, sì. Ci sta. 
Quello di cui non ci si deve dimenticare sono le persone che insieme a te hanno avuto la volontà di aiutare. E noi non dimentichiamo. Claudia e Francis non dimenticano

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Abbiamo chiesto alla nostra amica Emanuela, sorella della Beata Benedetta una testimonianza su questa giovane beata che verrà da Papa Francesco quest’anno proclamata co-patrona degli ammalati. Benedetta Bianchi Porro nasce a Dovadola, in provincia di Forlì, l' 8 agosto 1936. È la seconda di sei fratelli e la sua vita è segnata, fin dalla primissima in infanzia, dalla malattia, che l’accompagnerà fino alla fine.

Prima la poliomielite, a soli sei mesi, che le lascerà una gamba menomata, poi un male incurabile, il morbo di Recklinghausen, che si manifesta, nella prima adolescenza, con la sordità. Sarà Benedetta stessa, studentessa di medicina, a diagnosticare, prima dei medici, la sua patologia. Un giorno si avvicina alla signorina Elettra, l’amica della mamma con cui viveva a Milano nel periodo dell’università, con in mano un libro di patologia medica che stava studiando: “Signorina, sa una cosa? La mia famiglia e i dottori pensano che la mia sordità sia di origine psicologica, ma non è vero. Ho scoperto che cos’è” e, mostrandole la fotografia di un paziente affetto da quel morbo “ Ecco la malattia che ho io”. 

Col passare degli anni il suo corpo si paralizza completamente, tranne che in una mano, attraverso la quale comunica con familiari e gli amici attraverso un alfabeto muto. Benedetta perde ogni percezione sensoriale, diventa completamente cieca ma la sua straordinaria intelligenza e il suo spirito sono più ardenti che mai e le permettono di comunicare con tutti quelli che si avvicinano a lei e, attraverso lei, il suo rapporto con Dio. Una caratteristica di Benedetta è l'umorismo. Spesso, nelle sue lettere afferma che, pur nella sua condizione, ha tanta voglia di ridere. Questa è una prerogativa dei santi. Kierkegaard, un filosofo che Benedetta amava, afferma che nella relazione col divino l’uomo prende coscienza dei suoi limiti di fronte all'orizzonte infinito che è Dio. L'umorismo fa ridere, consente di procedere leggero nella vita, sapendo che c'è un Altro a condurla. Benedetta Bianchi Porro si spegne a Sirmione il 23 gennaio 1964 all’età di ventisette anni.

Quella mattina d’inverno, nel giardino sotto alla sua finestra, sboccia una rosa bianca. «Le grazie che per lei il Signore concede entrano in punta di piedi come gli amici che andavano a trovarla nel suo letto di dolore. Esse non fanno rumore, se non si sta attenti non ci si accorge neppure che sono vere grazie. Sono prodigi essenziali per la nostra povera vita, concatenati uno all’altro come una paziente tessitura d’amore al tempo giusto e al posto esatto» scrive Enrico Medi, fisico di fama internazionale, e aggiunge «C’è un’altra dimensione che sfugge all’occhio dell’uomo ed è quella che san Paolo chiamava la “profunditas”».

E’ in quella dimensione che Benedetta abita e da cui comunica con noi, al di là dello spazio tridimensionale dove ci sentiamo prigionieri, mentre lei, nel buio e nel silenzio della sua “piccola grotta” e nella sua “deserta cella” vive la libertà.  Benedetta Bianchi Porro viene beatificata sabato 14 settembre 2019 nella cattedrale di Santa Croce a Forlì. Domenica 6 aprile 2025, in Piazza San Pietro, verra’ proclamata co-patrona degli ammalati.

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