Siamo Monica e Marco di Cassano Magnago in provincia di Varese che insieme ad alcuni amici della nostra comunità pastorale S.Maurizio, ci siamo messi in cammino per rispondere alla chiamata di Maria. Un pellegrinaggio (Macerata-Loreto ndr) lungo e faticoso, infatti si parte, nel nostro caso, da Cassano in pullman per arrivare dopo circa 8 ore a Macerata e da qui camminando tutta la notte si arriva a Loreto alla casa di Maria. Lo facciamo da alcuni anni questo gesto, perché riempie il cuore di tanto amore e ascolti testimonianze di vera fraternità cristiana .
Ci ha sempre colpito il numero enorme di pellegrini che arrivano da tutto il mondo e si ritrovano a Macerata per iniziare il pellegrinaggio portando nel cammino ciascuno il proprio “fardello” e infatti la domanda che abitava il nostro cuore era: “ma come è possibile questo?”
In alcuni momenti di maggior fatica, la domanda più pressante era: “ma c'è davvero bisogno di fare 30 km a piedi di notte per essere un cristiano devoto a Maria?”La domanda non ha generato una risposta vera e propria ma ha aperto a una marea di domande, perché la fede è anche questo ma una cosa possiamo dire con certezza: ne vale la pena!”
Mentre cammini e preghi, non solo per te, per la tua famiglia e per tutte le persone che si sono affidate attraverso di te per arrivare a Loreto, ti rendi conto che fai parte di un popolo che instancabile ringrazia e chiede allo stesso tempo di essere sempre perdonato e amato.
All’arrivo la stanchezza è tanta ma di più l’emozione, tanto da non riuscire neanche più a cantare, gli occhi si riempiono di lacrime di gioia; la strada che porta a Maria si è inondata di preghiere: di uomini e donne, di giovani e anziani, ognuno con la propria richiesta e sofferenza perché la vita e’ questa ma poi per grazia ti ritrovi a dire : “Nulla e’ impossibile a Dio !”
Ecco noi siamo andati per camminare con Lui e Lui non ci perde mai d’occhio!
di Monica e Marco Ghidelli
C’erano una volta i signori Bianchi. Il marito, ragioniere in una banca e sua moglie Rosa. Erano sposati da qualche tempo e avevano un bambino di nome Tino. Al suo terzo compleanno cominciarono a manifestarsi i primi sintomi di una malattia piuttosto strana. Un giorno, di ritorno dal supermercato, la signora Rosa trovò Tino accoccolato sul divano che giocava con un cavallo di gomma. “Oh, mamma mia!” esclamò. Tino le sembrava più piccolo.
Lo prese subito in braccio, controllò peso e altezza…meno male, Tino era lo stesso di sempre. Un altro giorno il signore e la signora Bianchi avevano lasciato per un attimo Tino solo in salotto. Quando tornarono lanciarono un urlo. Tino si era rimpicciolito! Appena lo presero in braccio Tino tornò quello di sempre. E così decisero di portarlo dal dottore. Il dottore lo visitò ma non trovò nulla di strano. Poi gli venne un’idea.
Lasciò Tino solo nella stanza per qualche minuto e, incredibile a dirsi, Tino era diventato piccolissimo! Appena il dottore tornò con i genitori e Tino vide il babbo e la mamma, tornò quello di prima. “Ho capito!” esclamò il dottore. “E’ grave?” incalzarono i genitori. “Calma signori, non c’è bisogno di allarmarsi, questo bambino ha bisogno di non restare mai solo. Quando rimane solo diventa piccolo. Ha bisogno della compagnia degli altri. Genitori, amici, compagni di giochi.
“E sarà sempre così, anche da grande?” “Questo si vedrà”.
Tino continuò a crescere e diventò un bambino socievole e curioso. Un giorno accadde un fatto strano. Tino, che non sapeva proprio tenere la bocca chiusa e aveva cominciato a domandare i perché di ogni cosa, aveva chiesto al suo papà quando e come sarebbe arrivato il suo fratellino. Il signor Bianchi, colto di sorpresa, gli rispose che era troppo piccolo per sapere certe cose e che avrebbe dovuto chiedere alla mamma. Tino si rimpicciolì improvvisamente. In preda al panico il signor Bianchi chiamò sua moglie, le spiegò cos’era accaduto e lei prendendo tra le braccia il piccolo Tino cercò le parole giuste per spiegare la faccenda. Tino tornò alle dimensioni normali.
Un’altra volta, a scuola, Tino chiese alla maestra perché i nonni muoiono. La maestra gli rispose che non era il momento di fare certe domande e Tino diventò improvvisamente piccolo piccolo. La maestra trasecolò. Bisognò chiamare il direttore, don Piero, il papà e la mamma di Tino perché trovassero insieme le parole giuste per dare una spiegazione al bambino. E Tino tornò normale. I genitori portarono nuovamente Tino dal dottore: “Dottore, dottore, Tino non è guarito, anzi è peggiorato! Rimpicciolisce improvvisamente!”
E raccontarono al dottore tutti gli episodi. “Calma, signori, calma. Questo bambino non è malato. Ha solo bisogno di essere ascoltato. Quando qualcuno non gli risponde o fa finta di non aver sentito la sua domanda, diventa piccolo. “E sarà sempre così?” “Si vedrà”.
Tino continuò a crescere. Continuò a fare domande, ed ebbe la fortuna di avere intorno adulti che avevano imparato ad ascoltare e a cercare insieme le risposte. Diventò grande e decise di fare il maestro.
(racconto liberamente ispirato ad una fiaba di Gianni Rodari)
di Maria Pia e i giovani dell’Officina delle Idee
Ho ascoltato per la prima volta Don Luca ad un incontro organizzato in occasione della festa di fine anno della scuola in cui lavoro; non avevo ancora letto il suo libro, ma da subito sono rimasta colpita dall’umanità e dalla verità che trapelavano dalle sue parole. Questo giovane prete bresciano di 36 anni racconta come nasce la sua vocazione al sacerdozio: da una degustazione di formaggi a St. Moritz. Faceva il cameriere in un hotel e un giorno, alla fine di una degustazione meravigliosa, si avventa voracemente sul formaggio e sul vino. Il caposala fa notare a Luca che proprio non sa gustare il vino e il formaggio perché voleva prendere tutto e subito.
Poco tempo dopo incontra un gruppo di sacerdoti della Fraternità sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo e rimane subito colpito proprio perchè loro sapevano davvero gustarsi la vita e così inizia a desiderare di appartenere a ciò a cui appartenevano loro.
Nel 2015 parte missionario per il Cile, nel 2017 va in Kenya e nel 2018 viene ordinato sacerdote. Nel 2021 a Nairobi accade un incidente che cambia la sua vita: mentre è in moto, un fuoristrada lo travolge, causando una grave ferita alla gamba sinistra.Viene trasportato in un ospedale africano per essere “aggiustato alla buona”, successivamente viene trasferito in Italia e a 33 anni si troverà costretto ad amputare l’arto.
E’ un libro breve ma intenso, è un viaggio fatto di sangue e dolore, ma pieno di luce e speranza. “La vita è un viaggio, un viaggio di ritorno a Colui che ci ha creati. Solo in Cristo la vita vale la pena di essere vissuta. Siamo creati per il paradiso. Io, un piede in paradiso, già l’ho messo” – “La malattia non va spiegata né capita: va accolta come un ospite inatteso pronto a stravolgere le nostre vite, a ridestarci dal torpore, a portarci un bene maggiore”.
Don Luca davanti al dolore ha provato rabbia, ha fatto davvero fatica ad accettare di aver perso una gamba, si arrabbia con Dio che non lo ha ascoltato nella sua richiesta di miracolo. Che cosa lo ha fatto ripartire? Lo sguardo di un’amica che dopo l’amputazione lo guarda con due occhi pieni di gratitudine come si guarda un dono e così si riscopre voluto bene, amato. Oppure la compagnia dei medici, dei sacerdoti, dei malati che ha incontrato in ospedale e che lo hanno accompagnato, quelli che lui definisce “la carezza di Dio”, perché questa è l’amicizia: il mistero della tenerezza di Dio che si fa presenza. Nulla è risparmiato, neanche l’esperienza del deserto: Don Luca talvolta non riesce a pregare, si sente solo con i suoi pensieri, con il suo dolore e l’umore altalenante.
Ma ecco che un amico sacerdote celebra due volte la Messa e recita il breviario due volte al giorno per fare anche la sua parte, un amico medico gli porta ogni mattina caffè e brioches per fare colazione insieme, la sua famiglia che, nel silenzio e nella carità, si prende cura di lui e così il cuore si riempie di gratitudine e di pace. Il dolore inizia a cambiare aspetto: la fatica resta ma diventa offerta: “La croce può essere rifiutata o abbracciata, ma non eliminata. Abbracciarla significa offrire le proprie sofferenze, così come ha fatto Gesù. L’offerta è la preghiera più bella…”. “Gesù ha lavorato, ha predicato, ha fatto miracoli e poi ha portato la croce su in cima al Calvario, un passo alla volta, ed è morto.Dopo tre giorni è risorto.
Da quel momento in poi, il dolore non è più obiezione, non può esserlo… il dolore è il dono dell’intimità con Cristo sofferente”.
Il libro si conclude con questa frase: “Non sono contento di aver perso una gamba… sono certo che Dio ha permesso che questo accadesse perché potessi essere più vicino a Suo Figlio. Il senso della vita non è soffrire il meno possibile, ma lasciarsi abbracciare da Colui che ci ha amati di un amore eterno e, in questo abbraccio, diventare un a cosa sola con Lui”.
Penso ai tanti amici del Club che mi testimoniano questa verità e chiedo la grazia di una compagnia che possa aiutarmi e sostenermi in questo viaggio di ritorno a Colui che ci ha creati.
di Gianpaola Ferrario