Quante situazioni difficili, quanti volti addolorati, quante fatiche vediamo dal banco della farmacia! E dietro ad ogni dolore c’è prima di tutto un volto: un volto che chiede attenzione, qualche minuto del nostro tempo, perché vuole essere ascoltato e soprattutto guardato.
Ecco allora che nella frenesia delle giornate lavorative ci si ferma, non a trasmettere parole di conforto (non si trovano mai parole “giuste” per alleviare una sofferenza!), ma a guardare quegli occhi che spesso sono tristi, spenti e gonfi di lacrime. Vedo ogni giorno situazioni di dolore e spesso di solitudine e allora capisco che per tante persone la vera medicina è il mio sorriso, il mio sguardo, l’attenzione alla loro situazione.
E’ stupendo vedere come i loro occhi, quando si sentono accolti, brillano di una luce nuova. E così si gioisce con loro quando arrivano in farmacia contenti per un esame di controllo andato bene, oppure ci si fa vicini al loro dolore quando le terapie sembrano non funzionare come dovrebbero. Nel mio lavoro ho capito questo piccolo ma grande “segreto”: di fronte al dolore dell’altro non dobbiamo temere di trovare le giuste parole di conforto, ma dobbiamo cercare di abbracciare la sofferenza, stando davanti alla loro preoccupazione e alle loro lacrime con cuore aperto.
Vedere come tante persone affidano le proprie preoccupazioni ad una semplice farmacista come me mi riempie di gratitudine e di gioia, e posso assicurare loro, che ho in mente il volto di ognuno di loro quando prego per i “miei malati”.
Di Anna Fontana - Bolladello di Cairate (VA)
In un’altra parte del mondo, a Nairobi, ti puoi imbattere in un anonimo cancello. Se ne varchi il limite ti trovi in un piccolo giardino vecchio stile, arredato con mobili riciclati e sgargiante di fiori. E’ insolitamente silenzioso ma accogliente. Al Pallet Cafè ti puoi sedere e ordinare quello che vuoi, senza parlare.
Se vuoi una bottiglia di acqua fredda basta mimare semplicemente dei brividi. Se vuoi un uovo sodo fai il gesto del pugno chiuso e se lo vuoi alla coque basta muovere leggermente le dita. Tutte le scelte sono ben specificate sul menù e camerieri solerti approvano la tua scelta alzando il pollice in su. Sono gentili e attenti e sulla t-shirt nera che indossano portano la scritta “I am deaf” (Io sono sordo).
Nei paesi africani la disabilità uditiva è una condizione che pone le persone ancora ai margini della società e il Pallet Cafè è un luogo alternativo dove attraverso la socialità si fa cultura combattendo le discriminazioni. Edward Kamande accoglie i clienti. Ventiquattro anni, è nato con un parziale deficit ad un solo orecchio. Il precedente lavoro come muratore in un cantiere di Nairobi tra la polvere e il fango ha compromesso del tutto il suo udito Feisal Hussein, il fondatore del locale, ricco imprenditore e ex operatore umanitario gli ha offerto una possibilità di riscatto in un comune bar “senza etichetta” per disabili, dove si supporta la comunità sorda del quartiere.
Più dei tre quarti dei dipendenti sono persone con deficit uditivo. “Nonostante la discriminazione sia vietata dalla nostra Costituzione, nel mio Paese ci sono tantissimi disabili ai quali non viene data nessuna possibilità di lavorare – denuncia Edward –. Il problema è grave in particolare per le persone sordomute, a causa delle loro difficoltà di comunicazione. Gli oltre 600 mila sordi del Kenya continuano a lottare contro i pregiudizi e non hanno neppure accesso all’assistenza sanitaria e professionale né tantomeno all’istruzione di base”.
Il Pallet Cafè è un simbolo di riscatto e coraggio, una goccia di “caffè” per riscaldare e far ricominciare a battere il cuore di tanti.
Agata Smeralda fu la prima neonata il 5 febbraio 1445 a passare attraverso la grata della finestra dell’Ospedale degli Innocenti a Firenze. Dopo di lei più di 500.000 bambini hanno trovato accoglienza tra le sue mura.
La grata alla finestra era fatta in modo che attraverso le sue inferriate potesse passarci solo il corpicino di un neonato. Questa scelta dell’Ospedale era per favorire i figli illegittimi, che non avevano la possibilità di crescere con i genitori , i bimbi perciò più fragili e a rischio di sopravvivenza. Al di là di questa finestra c’era un presepe con Maria e Giuseppe quasi a grandezza naturale e in mezzo a loro una culla vuota dove veniva messo il neonato...era Gesù che nasceva all’Ospedale e nei documenti di registrazione della nascita veniva scritto: “posto nel presepe il giorno .. alle ore..”.
Alle madri che abbandonavano i figli veniva chiesto solo se erano stati battezzati e con quale nome e di lasciare un segno di riconoscimento, spesso una medaglia spezzata a metà, qualora ci ripensassero e volessero tornare a prenderseli. L’Ospedale degli Innocenti non era però un luogo di cura medica come lo sono i nostri ospedali ma una “famiglia” che curava, istruiva educava, faceva imparare un lavoro. Si poteva, raggiunta l’autonomia, andarsene o restare ma si poteva anche tornarci quando le condizioni del mondo esterno diventavano intollerabili...
Il seme che Francesco Datini aveva lasciato donando 1000 fiorini per l’inizio di quest’opera ha dato frutti che sono continuati fino ai nostri giorni. La sua generosità aveva radici nella sua storia personale. Rimasto orfano, adottato, con intraprendenza e coraggio divenne mercante ricchissimo con attività diffuse in tutto il mondo allora conosciuto. Senza dimenticare le sue origini si prodigò per alleviare le sofferenze dei più poveri.
La “finestra dell’accoglienza” venne chiusa nel 1875 ma ancora oggi l’Ospedale è “casa” per chi non ha avuto la fortuna di avere una famiglia.