Può la luce di una ribalta in un attimo, inaspettatamente, esaltare la vita, quella vera, fatta di gioie ma anche di dolori? E proprio quando, ascoltando delle canzoni desideriamo solo dimenticare il buio, le difficoltà, l’amarezza, il dolore del mondo? E’ quello che è successo a Sanremo quando Giovanni Allevi è salito sul palco per raccontarsi, per ringraziare in un inno alla vita dentro una strada di dolore. Così si è raccontato:

“All’improvviso mi è crollato tutto. Non suono più il pianoforte davanti al pubblico da due anni. Nel mio ultimo concerto alla Konzerthaus di Vienna il dolore alla schiena era talmente forte che sull’applauso finale non riuscivo ad alzarmi dallo sgabello. E non sapevo ancora di essere malato. Poi è arrivata la diagnosi, pesantissima. Ho guardato il soffitto con la sensazione di avere la febbre a 39, per un anno consecutivo. Ho perso molto: il mio lavoro, i miei capelli, le mie certezze. Ma non la speranza e la voglia di immaginare. Era come se il dolore mi porgesse anche degli inaspettati doni. Quali? Vi faccio un esempio. Non molto tempo fa, prima che accadesse tutto questo, durante un concerto in un teatro pieno ho notato una poltrona vuota. Come una poltrona vuota? Mi sono sentito mancare. Eppure, quando ero agli inizi, per molto tempo ho fatto concerti davanti a un pubblico di 15, 20 persone, ed ero felicissimo. Oggi, dopo la malattia, non so cosa darei per suonare davanti a 15 persone. I numeri non contano perché ogni individuo è unico, irripetibile e a suo modo infinito.

Un altro dono è la gratitudine nei confronti della bellezza del creato. Non si contano le albe e i tramonti che ho ammirato da quelle stanze dell’ospedale. Il rosso dell’alba è diverso dal rosso del tramonto e se ci sono le nuvolette è ancora più bello. Un altro dono è la gratitudine per la competenza dei medici, degli infermieri, di tutto il personale ospedaliero. La riconoscenza per la ricerca scientifica, senza la quale non sarei qui a parlarvi. La riconoscenza per il sostegno che ricevo dalla mia famiglia, per la forza che ricevo dagli altri pazienti. Li chiamo guerrieri, e lo sono anche i loro familiari e i genitori dei piccoli guerrieri. I veri guerrieri sono i genitori dei piccoli pazienti. Ho portato queste anime con me sul palco. Facciamo loro un applauso.

Quando tutto crolla e resta in piedi solo l’essenziale, il giudizio che riceviamo dall’esterno non conta più. Io sono quel che sono, noi siamo quel che siamo. E come intuisce Kant, il cielo stellato può continuare a volteggiare nelle sue orbite perfette, io posso essere immerso in una condizione di continuo mutamento, eppure sento che in me c’è qualcosa che permane ed è ragionevole pensare che permarrà in eterno. Io sono quel che sono. Voglio andare fino in fondo a questo pensiero. Voglio accettare il nuovo Giovanni. Come dissi in quell’ultimo concerto a Vienna,non potendo più contare sul mio corpo, suonerò con tutta l’anima. Il brano si intitola Tomorrow, perché domani, per tutti noi, ci sia sempre ad attenderci un giorno più bello.

(Giovanni Allevi)

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Eunice fu la donna che fece la differenza per le persone con disabilità intellettiva. Nata nel Massachussetts nel 1921, quinta dei nove figli della famiglia Kennedy aveva una sorella, Rosemary che aveva una disabilità intellettiva. Alla fine degli anni 50 queste persone erano emarginate, tenute nascoste, abbandonate a se stesse. Rosemary era una figura “sconveniente” per la famosa famiglia Kennedy ma Eunice le era molto affezionata.

Era cresciuta giocando con lei e facendo molto sport: nuoto, barca a vela, calcio. Aveva potuto apprezzare personalmente le potenzialità che l’attività sportiva offriva a persone come Rosemary e come lo sport potesse unire persone diverse ognuna secondo le proprie possibilità e caratteristiche. Eunice cominciò allora la propria battaglia. Iniziò a visitare gli istituti dove questi ragazzi erano ricoverati, parlò con gli specialisti delle disabilità intellettive e nel 1962 nel giardino di casa sua organizzò attività sportive per loro. Segregati,dimenticati e fonte di imbarazzo per la gente, molti di loro non avevano mai visto una piscina, alcuni neppure l’erba di un giardino. Potevano finalmente unirsi al resto del mondo e attraverso il gioco apprendere le regole di una più serena convivenza. Nel luglio del 1968 negli Stati Uniti d’America a Chicago vennero inaugurati i primi Giochi Internazionali Special Olympics.

Nel suo discorso, in occasione della Cerimonia di Apertura, Eunice Kennedy ha dichiarato che quei Giochi dimostravano “un fatto fondamentale” : “Che le persone con disabilità intellettive possono essere atleti eccezionali e che attraverso lo sport possono realizzare il loro potenziale... Questa nuova organizzazione, Special Olympics, offrirà a tutte le persone con disabilità intellettive la possibilità di giocare, la possibilità di competere e la possibilità di crescere”.
Ciò che è iniziato come la visione di una sola donna si è evoluto in Special Olympics, un Movimento globale che oggi coinvolge più di 4,7 milioni di persone con disabilità intellettiva in 200 paesi, Italia compresa.

“Trent’anni fa dicevano che non eravate in grado di correre i 100mt. Oggi, voi correte la maratona. Trent’anni fa, dicevano che dovevate rimanere chiusi negli istituti. Oggi siete di fronte alle televisioni di tutto il mondo. Trent’anni fa, dicevano che non potevate dare un valido contributo all’umanità. Oggi, voi riunite sullo stesso terreno dello sport nazioni che sono in guerra…”  (Eunice Kennedy Shriver Giugno’99 North Carolina)

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Stare lì. Per 37 anni. Amando, Imprecando. Pregando. Arrangiandosi. Sperando anche in un miracolo, sì. I protagonisti di questa storia sono i famigliari di Alessandro Guarnieri, il padre e il fratello. La madre no, è morta, non ha resistito 37 anni. 
Alessandro Guarnieri aveva 54 anni, Aveva perché ci ha lasciati qualche settimana fa: era in stato di minima coscienza (partendo dal coma, passando per lo stato vegetativo e finendo in quello che osiamo definire mistero). Aveva 17 anni quando la sua vita si trasformò. Gli esperti dicono che ha battuto il record di sopravvivenza in quello stato.

Ma parliamo di Giampaolo e Andrea, il padre e il fratello di Alessandro. In una toccante intervista hanno raccontato alcune cose importanti: 1) Gli avevano dato al massimo 72 ore di vita dopo l'incidente; 2) Avevamo il dovere di curarlo al meglio; 3) Siamo anche stati sostenuti dalla speranza che si compisse un miracolo; 4) La sua era una vita, non una non vita; 5) Rifaremmo tutto daccapo.

Ora leggetevi tutto d'un fiato il seguito: 'Non abbiamo mai avuto un'assistenza pubblica adeguata. Non c'è un vero servizio per questi malati. Noi ci siamo sempre e soltanto dovuti arrangiare. Quando per qualche crisi venivano a prenderlo col 118, dovevamo rispiegare tutto daccapo. Se da un lato c'è il libero arbitrio, dall'altro ci deve essere un sistema che garantisce i livelli adeguati di assistenza: ma non è così. Per avere un materasso antidecubito di ricambio abbiamo atteso 3 mesi, dopo 72 ore dal suo decesso sono venuti a ritirarlo. Se sei lasciato solo, è più facile decidere di farla finita- Anche perché ti senti un peso per i tuoi famigliari'.

Ecco, immergete questo discorso nei dibattiti etici politici di oggi, della Regione Emilia-Romagna che vuole fare come sempre la prima della classe e sforna regole e codicilli per poi mettere in piedi un Comitato etico di 22 persone (che dovranno anche essere pagate) e calendarizza anche il 'sia fatta la tua volontà' del suicidio medicalmente assistito: 42 giorni. Sì che bisogna correre per queste cose qui.

Pazienza, invece, se il materasso da decubito arriva tre mesi dopo.
Ci vorrebbe, cari amici, lo sguardo del profeta Isaia: 'Tu sei prezioso a miei occhi, perché sei degno di stima. Non temere perché io sono con te'.
Il mondo si ribalterebbe.

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