Queste sono le parole di Matteo Betti campione paralimpico di scherma soprannominato il “senatore delle Paralimpiadi”. Nella sua vita di schermitore di medaglie ne ha vinte tante ma quella più importante la vince ogni giorno nel suo impegno a 360 gradi a fianco del mondo della disabilità, sportiva e non. Nel 1985 al momento della nascita un’emorragia cerebrale gli causa un’emiparesi destra. MATTEO BETTI

A 6 anni per la prima volta mette il piede su di una pedana. Lo sport che all’inizio è solo un trattamento riabilitativo si rivela ben presto la sua grande passione. Ha passato trent’anni della sua vita tra colpi di spada e di fioretto con impegno e tenacia, le stesse qualità che cerca di trasmettere con la sua presenza nelle scuole incoraggiando i giovani diversamente abili ad uscire di casa per andare ad allenarsi. In questi incontri Matteo parla pochissimo di lui, presenta invece tutti gli sport che i ragazzi conoscono, in versione paralimpica.“Funziona benissimo il nuoto – racconta –  poi il c’è il calcio per non vedenti, lo sci che cattura sempre tanta attenzione per le velocità impossibili che vengono raggiunte, l’atletica leggera e, ovviamente, la scherma”.

Un anno fa ha pubblicato un libro “Un tiro mancino. Matteo Betti. Storia del campione di scherma paralimpica” scritto dalla giornalista Giovanna Romano per raccontare la storia di uno sportivo di successo e raccogliere fondi da investire a favore delle società paralimpiche senesi ma soprattutto per ricordare – come dice Matteo- che “La disabilità  non è, e non può essere, la caratteristica principale con cui viene giudicata una persona. Certo importantissimo è il sostegno famigliare. Come professionisti siamo vincolati a trasferte e ritmi che sono difficili da affrontare e senza il sostegno della famiglia sarebbe quasi impossibile”.

L’obiettivo principale, adesso, è Parigi 2024 e tutta la sua famiglia tifa per lui.

Per vedere i pulsanti di condivisione per i social (Facebook, Twitter ecc.), accetta i c o o k i e di "terze parti" relativi a mappe, video e plugin social (se prima di accettare vuoi saperne di più sui c o o k i e di questo sito, leggi l'informativa estesa).
Accetta c o o k i e di "terze parti"

di Roberto Filippetti

Immagine1Gioia di vivere: così s’intitola il recente volume dell’editore Donzelli con le Lettere e gli scritti sull’arte di Henri Matisse, il grande pittore che era nato nel 1869 e che morirà nel 1954.
La gioia di vivere (Le bonheur de vivre) era stato anche il titolo di uno dei suoi dipinti Fauve più celebri, del 1906, nel quale – giunto “nel mezzo del cammin di nostra vita” e baciato dal successo – egli aveva dato forma sensuale ai piaceri graziosamente donati dagli amori, dalla natura in fiore, e dalle arti quali la musica e la danza. Giusto trentacinque anni dopo, tutto si era fatto buio: un tumore all’intestino lo aveva condotto sul crinale tra la vita e la morte. A seguito dell’intervento chirurgico del 1941 all’ospedale di Lione l’artista continuava ad essere sofferente e il suo stato di salute necessitava della presenza costante di un’infermiera.

La voglia di vivere e di riprendere a creare rinacque soprattutto grazie ad un incontro: quello con Monique Bourgeois, la giovane allieva infermiera che sostituì provvisoriamente l’operatrice sanitaria andata in ferie. Quando un incontro è un avvenimento ne ricordiamo la data. Così fu per loro due: era il 26 settembre 1942. Lui aveva 73 anni, lei 21. Anche grazie a questo incontro Matisse giungerà a confessare: «mi è stata assegnata una seconda vita». C’era in MoniImmagine2que un misterioso fascino e l’artista pensò bene di farne la propria modella, ma posò per sole quattro tele perché ben preso si fece domenicana col nome di suor Jaques-Marie. La vocazione religiosa di lei condusse maieuticamente lui a rileggere i passi della propria vocazione artistica, imperniata su una visione della realtà come segno e analogia del Mistero. Ecco un ampio stralcio di una lettera di Matisse all’amica suora, lei con la vocazione alla vita contemplativa e orante, lui chiamato alla vita attiva e creante: «Io sono stato condotto (molto modestamente) pertanto -ed io l'ho constatato solamente in questi ultimi anni, guardando a ritroso il mio cammino- a considerarmi come destinato dall'Altissimo a risvegliare nello spirito degli altri uomini la visione delle cose, che conduca ad una elevazione dello spirito, fino a giungere al Creatore. Io obbedisco - io lo credo fermamente - al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo. 

La mia contemplazione non può essere soltanto di ammirazione ma deve essere attiva, mettendo in moto tutte le risorse dello spirito per creare il mezzo più diretto per elevare lo spirito dei miei simili verso una regione che li faccia uscire dalla loro bassa condizione umana – soprattutto dall'interesse “dImmagine3el guadagno per il guadagno” con il quale si pensa di poter tutto comprare. Voi pregate per me. Ve ne ringrazio. Domandate a Dio di donarmi nei miei ultimi anni la luce dello spirito che mi tenga in contatto con Lui, che mi permetta di far giungere la mia carriera lunga e laboriosa allo scopo che io ho sempre cercato: rendere la Sua gloria evidente ai ciechi […] Io vado in questo momento, come tutte le mattine, a fare la mia preghiera, con la matita in mano, davanti ad un melograno coperto di fiori nei diversi stadi della fioritura e spio la loro trasformazione, facendo questo non con uno spirito scientifico, ma compenetrato di ammirazione per l'opera divina. Non è questo un modo di pregare? Ed io non faccio che (ma, in fondo, io non faccio niente, perché è Dio che conduce la mia mano) rendere evidente per gli altri l'intenerimento del mio cuore». Fu proprio questa amica suora a invitare Matisse a progettare la Cappella del Rosario per il foyer LacordImmagine4aire, a Vence, dove lei risiedeva. L’altare egli lo volle scolpito in una pietra color del pane; le vetrate evocanti l’Albero della Vita le concepì come luminosa sorgente di colori che andassero ad accarezzare il bianco e nero delle pareti opposte con san Domenico, la Madonna col Bambino che già prefigura la croce, e le 14 stazioni della Via Crucis.

Conclusi i lavori di questa Cappella nel 1951, Matisse continuò a progettarne gli oggetti liturgici e i paramenti. Fra le varie casule una sola è esplicitamente ‘eloquente’: vi è scritto ESPERLUCAT che in dialetto provenzale significa “con gli occhi aperti”, “svegliato”. Nel paramento in uso per la liturgia dei defunti è dunque inscritta la speranza teologale: lo sguardo aperto sul risveglio eterno oltre il sonno della morte. Il padre Couturier riferì

Immagine5di un colloquio avuto con Matisse, proprio a questo proposito: «Parliamo della casula nera: gli dico che non è una casula triste, ma una casula di resurrezione. Mi risponde: “E' questo di cui c'è bisogno, non è vero?” La morte non è la fine di tutto, è una porta che si apre”. Immediatamente i suoi occhi si riempirono di lacrime».

Ecco un florilegio di folgoranti riflessioni di Matisse su cosa aveva cercato di comunicare nella Cappella del Rosario a Vence, attraverso la luce, i colori e le figure faticosamente disegnate su riquadri di ceramica bianca, utilizzando un pennello intriso di pittura nera e fissato all’estremità di una lunga canna: “Bisognava decorare l'altare in modo leggero… Questa leggerezza dà il sentimento di liberazione, di affrancamento, così bene che la mia cappella non è: “FratellImmagine6i bisogna morire”. È, al contrario: “Fratelli bisogna vivere!”.

Quella di Vence è una Chiesa piena di gaiezza – uno spazio che renda la gente felice... Che tutti coloro che visitano questo luogo lo lascino gioiosi e riposati. Io voglio che quelli che entreranno nella mia cappella si sentano purificati e scaricati dai loro pesi. Noi avremo una cappella nella quale tutti potranno sperare. Quale che sia il carico dei peccati, li si potrà lasciare alla porta. Uscendo da Notre-Dame mi sono detto: “Eh bene! Di fronte a tutto questo cos'è la mia cappella?”… Allora mi sono detto: “E' un fiore. Non è che un fiore, ma è un fiore”.

 

Immagine7 Bonheur de Vivre

Immagine8

 

Matisse 11 didascalie

  1. Interno della Cappella del Rosario a Vence, verso l’altare
  2. Henri Matisse e suor Jaques-Marie
  3. Matisse abbozza la Via Crucis
  4. La via Crucis in forma definitiva
  5. La casula “Esperlucat”
  6. Interno della Cappella del Rosario a Vence, verso il fondo
  7. Bonheur de vivre, 1906
  8. L’albero della Vita (dettaglio)
Per vedere i pulsanti di condivisione per i social (Facebook, Twitter ecc.), accetta i c o o k i e di "terze parti" relativi a mappe, video e plugin social (se prima di accettare vuoi saperne di più sui c o o k i e di questo sito, leggi l'informativa estesa).
Accetta c o o k i e di "terze parti"

vettorelloVanessa Vettorello è una fotografa ritrattista che durante gli studi universitari in Psicologia ha scoperto la passione per la fotografia. Il suo progetto Fixing you prende le mosse dal libro con lo stesso titolo scritto anni fa dalla neurobiologa statunitense Susan R. Barry che racconta la sua vita in 3D subito dopo l’operazione che ha subito all’età di 5 anni per correggere lo strabismo. Anche Vanessa è stata affetta dallo stesso disturbo visivo.

“Da bambina - racconta - vedevo doppio e non avevo profondità di campo, per me ogni cosa era piatta e raddoppiata e non capivo quale fosse quella giusta. Alle elementari stavo in un mio mondo, ero sempre distratta e molto agitata e cadevo spesso, tanto che mi sono rotta tutta. Avevo sempre bisogno degli occhiali, che mi raddrizzavano la vista. Poi a 12 anni sono stata operata e ricordo perfettamente quando mi hanno tolto le bende: allo specchio ho visto una sola Vanessa. Non vedevo più la doppia me e da quel momento la mia vita è cambiata. Mi sono sentita più sicura, ho iniziato a fare sport e mi sono collegata con la realtà. Ho lasciato il mondo degli animaletti colorati che fino a quel giorno mi aveva tenuto compagnia”. Con il passare degli anni le è tornato il desiderio di tornare a vedere con occhi nuovi quel mondo che aveva percorso con uno sguardo “strano”. Ha letto libri, si è informata, ha cercato persone che la aiutassero ad andare a fondo al problema dello strabismo come l’ortottista Marisa Merlone e il professor Nucci,un luminare della chirurgia ottica per lo strabismo. “Ho deciso di raccontare lo strabismo –dice- perché se ne parla poco e soprattutto si parla poco di prevenzione.

Ci sono i mezzi per capirlo anche in un neonato e anche se è latente i genitori devono sapere che non è un problema estetico ma funzionale”. Con la fotografia, utilizzando delle doppie esposizioni, unendo la tecnica alla sua storia e alle sensazioni che ha provato negli anni Vanessa guarda con gli occhi del cuore tracciando una strada aperta alla speranza che lo strabismo non sia vissuto più come un tabù.

Per vedere i pulsanti di condivisione per i social (Facebook, Twitter ecc.), accetta i c o o k i e di "terze parti" relativi a mappe, video e plugin social (se prima di accettare vuoi saperne di più sui c o o k i e di questo sito, leggi l'informativa estesa).
Accetta c o o k i e di "terze parti"